Nuovo oro per vecchi USA
C’è voluto un lavoro straordinario dei vecchi Steph Curry, Kevin Durant e LeBron James, 36 anni i primi due e quasi 40 il terzo, per portare negli Stati Uniti un oro olimpico del basket fin troppo annunciato e che nell’era dei professionisti NBA ai Giochi è sfuggito una sola volta, ad Atene 2004: da Barcellona 1992 ad oggi 8 trionfi e un bronzo, con una squadra peraltro clamorosa dove giocava fra gli altri (Iverson, Duncan, Wade…) anche un James ventenne.
Gli Avengers
La retorica sugli Avengers e i paragoni impossibili con il Dream Team del 1992 stavano per portare malissimo nella semifinale con la Serbia, con la squadra trascinata da Jokic andata anche sul più 17. Poi la situazione è stata presa in mano dai vecchi, aiutati da alcuni tiri aperti sbagliati dai serbi, da un arbitraggio permissivo e da un episodio su cui è girato tutto e che sarà ricordato come «il tiro da 6 punti»: fallo di Jokic su Anthony Davis mentre Durant segnava da tre, palla agli USA e altro canestro da tre di Booker. La seconda situazione più annunciata era la finale con la Francia, favorita dalla discutibile formula che ha mandato la Serbia contro gli USA, già incontrati nel girone, prima della finale. Una finale in cui la Francia con un buonissimo, per quanto soft, Wembanyama ed uno Yabusele da battaglia è stata in scia fin quasi alla fine, quando con gli USA sopra solo di 3 Curry, con uno show balistico dei suoi, seguito dall’iconico gesto «Night night» (il segno di andare a nanna, non il massimo della simpatia) ha chiuso ogni discorso, con un 98-87 finale che sulla carta ci stava ma arrivato dopo una partita che poteva girare su due azioni. Il punto è proprio questo: mai come oggi l’America e le migliori squadre europee sono vicine, può vincere ancora l’America ma solo quando mette in campo i suoi miti e non la classe medio-alta come l’anno scorso al Mondiale quando perse da Germania e Canada.
A proposito di MVP
Curry, alla sua prima Olimpiade per una serie di circostanze, è stato l’uomo del destino nelle due partite decisive e Durant è arrivato da protagonista al suo quarto oro olimpico (record forse imbattibile, così come i 509 punti ai Giochi), mentre come miglior giocatore del torneo è stato eletto LeBron James. Che ha visto premiato anche lo status, il suo essere l’uomo-immagine della NBA anche se a un livello distante da quello di Michael Jordan. Ecco, l’MVP. Che in questa stagione NBA è stato il serbo Nikola Jokic, davanti al canadese Shai Gilgeous-Alexander, allo sloveno Luka Doncic e al greco Giannis Antetokounmpo. Già questa classifica dice come la geografia della pallacanestro sia cambiata, al di là del fatto che a livello medio-alto gli USA potrebbero mettere in campo venti nazionali da medaglia e gli altri una. A Bercy più che di Dream Team si respirava aria di fine di un’epoca: gli USA vinceranno altri ori olimpici, e fra quattro anni a Los Angeles non potranno esimersi dal farlo, ma lo faranno senza personaggi di spessore e impatto mediatico mondiale come James, Curry e Durant, anche se quest’ultimo scherzando con i giornalisti non ha escluso la sua presenza.
Una panchina scomoda
La parte più difficile dell’allenare gli Stati Uniti è quella di dosare il minutaggio di campioni con ego smisurato e Steve Kerr ci è riuscito abbastanza bene, sacrificando una stella del presente come Jayson Tatum per puntare sull’usato sicuro. Prima dei Giochi aveva annunciato le sue dimissioni da Team USA per dedicarsi solo alla ricostruzione dei suoi (e di Curry) Golden State Warriors, ben lontani da quelli dei 4 titoli NBA. Chissà se con un oro al collo cambierà idea. Certo l’allenatore degli USA è in una posizione scomoda perché si parla di lui soltanto per le sconfitte o le quasi-sconfitte, senza contare il ruolo che Kerr ha assunto in una NBA dove chi esprime un pensiero politico lo esprime pro partito democratico, comunque in chiave anti-trumpiana (quando Trump era presidente i suoi Warriors si rifiutarono di fare la tradizionale visita alla Casa Bianca). Il buon rapporto con i giocatori afroamericani nasce anche da questo.
Palla agli esterni
Lo sport non è mai soltanto sport e c’è chi attacca Kerr per partito preso, cosa che del resto vale anche per chi lo esalta: certo la sua nazionale non entrerà nella storia della pallacanestro per la qualità del gioco, pur avendo compiuto la sua missione. Con un’ideologia tattica che era anche dei suoi predecessori: pochi palloni ai lunghi, anzi direttamente poco spazio ai lunghi (l’attesissimo Embiid, fischiato perché un anno fa sembrava sul punto di scegliere la nazionale francese, è stato un gregario), e creazione di un vantaggio dal palleggio delle guardie, avendo in campo quei due o tre esterni «on fire» che puniscono le difese troppo aggressive. Un gioco che ha funzionato, per lo meno con i monumenti.