Pioggia di sanzioni sulla Russia, e sullo sfondo il caso Jugoslavia

Negli ultimi anni la Russia è stata l’epicentro di diversi grandi eventi. Dapprima le Olimpiadi di Sochi, nel 2014, caricate di un tale significato da sfociare in uno degli scandali di doping più rilevanti della storia. Nello stesso anno, sempre sul Mar Nero, tornò in auge la Formula Uno. Con tanto di contratto pluriennale. Poi i Mondiali del 2018, certo, e ancora l’Europeo itinerante dello scorso anno. Per certi versi «salvato» proprio dalla sede di San Pietroburgo, messasi a disposizione per ospitare le partite cancellate a Dublino. Infine la finalissima della Champions League, programmata il 28 maggio 2022 sempre alla Gazprom Arena. Tutto questo, ma non solo, ora si sta sgretolando. Sotto il peso del conflitto in Ucraina, imposto con la forza da Vladimir Putin.
Annunciata e inevitabile, ieri mattina è caduta la sentenza di Nyon: niente ultimo atto della Champions nella vecchia Leningrado. Si giocherà a Parigi, allo Stade de France. Di più: il Comitato esecutivo dell’UEFA ha altresì deciso che le squadre russe - di club così come la nazionale - non avranno più il diritto di scendere in campo nel proprio Paese. Spazio ai terreni neutri e addio alla oramai insostenibile «neutralità» dell’Unione delle associazioni calcistiche europee. I riflettori, dunque, si spostano di colpo sulla FIFA. Che, sì, ha stigmatizzato e denunciato a parole l’azione militare promossa dal Cremlino. Evitando, tuttavia, di esporsi sui dossier più scottanti che la riguardano. E cioè i prossimi playoff mondiali, che vedranno la Russia giocarsi un posto per Qatar 2022. Uno scenario ammissibile?
Se si predilige l’inclusione
In ballo, una volta di più, c’è il concetto di «neutralità». Un concetto che le istituzioni sportive cercano di plasmare a seconda dei propri interessi. «Dagli anni Trenta, quando venne creata una vera comunità internazionale, lo sport afferma il dogma dell’autonomia e dell’indipendenza» spiega Kevin Tallec Marston, storico e ricercatore all’Osservatorio e centro studi sul mondo del pallone di Neuchâtel (CIES). «Le esclusioni politiche sono rare nello sport, proprio perché cozzano con l’idea di indipendenza da influenze esterne. Se guardiamo alla storia, notiamo che i dirigenti delle grandi federazioni hanno preferito mantenere, dove possibile, l’inclusione dei Paesi. Procedendo però più facilmente all’estromissione dei singoli atleti». I boicottaggi più significativi, prosegue Tallec Marston, sono nati in risposta a queste «non decisioni». Perlomeno sino agli anni Ottanta e Novanta. «Quando attraverso la nascita di TAS e WADA è stata creata una giustizia sportiva esterna a quella delle federazioni. E l’esclusione su larga scala della Russia, decisa nel 2020 e osservata anche agli ultimi Giochi, fa parte di questa nuova struttura, in cui le sanzioni possono essere applicate senza forzare la mano ai presidenti delle principali organizzazioni sportive. Le esclusioni, insomma, non dipendono obbligatoriamente da loro».
La celebre risoluzione 757
Il rischio di scivoloni, inoltre, può essere minimizzato con altre scorciatoie sportivo-diplomatiche. Prendete gli ultimi Europei: Russia e Ucraina sono state tenute a distanza di sicurezza. Impossibile sorteggiarle nello stesso gruppo nella fase a gironi. Il destino ha impedito che un incrocio avvenisse dagli ottavi in poi, mentre l’UEFA impediva alla selezione di Shevchenko di vestire una divisa con chiari riferimenti alla Crimea. Nessuna prefigurazione del drammatico conflitto in corso, dunque. A differenza di quanto avvenne all’alba degli anni Novanta, con l’ex Jugoslavia. Ricordate? Il 13 maggio del 1990 andò in scena la battaglia di Zagabria, allo stadio Maksimir, teatro del match tra Dinamo e Stella Rossa di Belgrado. Croazia e Serbia allo scontro, un tutti contro tutti, che coinvolse tifosi, poliziotti e giocatori. Iconico, in questo senso, il calcio sferrato da Boban a un agente intento a picchiare un sostenitore croato. Poco più di un anno dopo, i Balcani divennero una polveriera. Eserciti e sangue, al grido di «indipendenza». E la fine della Repubblica federale di Jugoslavia, costata a una delle selezione più talentuose del XX secolo la partecipazione a Euro 1992. Quello vinto clamorosamente dall’invitata a sorpresa Danimarca, già. L’esclusione di Savicec e compagni fu per certi versi obbligata. Di più: paradossalmente dipese in minima parte da UEFA e FIFA. La Svezia, che organizzava il torneo ed era alle prese con un afflusso ininterrotto di profughi croati, dichiarò la Jugoslavia una nazionale indesiderata. Una contrarietà alla quale si accodarono immediatamente le altre selezioni presenti all’Europeo. Mentre il presidente svedese dell’UEFA Lennart Johansson alzava il pressing sulla FIFA - più attendista -, a decretare ufficialmente l’estromissione della Jugoslavia fu però l’ONU. Attraverso la celebre risoluzione 757 del 30 maggio 1992.
«Un paragone fragile»
Inevitabile, ora, chiedersi se alla Russia accadrà lo stesso. Kevin Tallec Marston preferisce rimanere prudente: «La Jugoslavia era un Paese in totale frammentazione, alle prese con una guerra civile. Oggi, al contrario, osserviamo uno Stato che ne invade un altro. Il paragone mi sembra fragile». Il ricercatore torna quindi sulla genesi dell’esclusione del 1992: «A volte il mondo politico può anticipare quello sportivo, come nel caso dell’UEFA che si adeguò all’ONU. Allo stesso tempo, tuttavia, può accadere pure il contrario. Sempre ne caso della Jugoslavia, la Croazia aveva per esempio già giocato qualche partita prima dell’indipendenza formale: un’amichevole contro gli USA nel 1990. Un modo, questo, per affermare la propria identità in anticipo sull’indipendenza politica e attraverso lo sport». Il presente, chiaramente, racconta d’altro. Ma in casa FIFA; dicevamo, alcune importanti decisioni s’impongono. «I calciatori russi sotto bandiera neutra in Qatar? È troppo presto per immaginarsi uno scenario del genere» indica Tallec Marston: «Il problema più impellente, al momento, sono i playoff di fine marzo. Dopodiché non è nemmeno sicuro che la Russia si qualificherà per il prossimo Mondiale». E Gianni Infantino, probabilmente, non si augura altro.