Sport e storia

Quando il calcio femminile infastidiva l'Inghilterra

Oltremanica regna l’euforia per l’Europeo, ma nel 1921 la Federazione negò alle donne il diritto di emanciparsi e divertirsi con il pallone
Per il loro esordio vincente contro l'Austria, le leonesse inglesi hanno attirato allo stadio quasi 70 mila persone. © EPA/PETER POWELL
Massimo Solari
09.07.2022 06:00

A Old Trafford, per il battesimo del torneo e l’esordio delle beniamine di casa, erano presenti in 69 mila. Sessantanovemila. Sì, l’Europeo femminile in corso in Inghilterra è destinato a bruciare ogni record. In termini di affluenza e ritorno economico. Stadi pieni, visibilità, commerciabilità e, di riflesso, tanto entusiasmo. Con il Paese ospitante a ricoprire più che volentieri il ruolo di pioniere. E a bearsi per lo stesso. Il football, già, non solo declinato al maschile. Bene, bravi: tutto molto bello e paritario. Peccato che proprio Oltremanica il calcio femminile non sia sempre stato visto di buon occhio. Al contrario. A lungo venne ostacolato. Vietato, addirittura.

«Non sono idonee»

5 dicembre 1921. Eccola, la data incriminata che vide la Football Association entrare in tackle su oltre 150 formazioni che oramai calcavano i campi inglesi. Il messaggio, ai tempi, fu inequivocabile: «Il calcio non è idoneo per le donne e non dovrebbe essere incoraggiato. La FA proibisce a tutti i club affiliati di prestare i propri terreni alle squadre femminili o di procurare loro qualsivoglia assistenza tecnica o umana». Eppure gli anni della Grande Guerra e quelli immediatamente successivi avevano suggerito tutt’altro. Il primo conflitto mondiale, in particolare, aveva favorito l’emergere del fenomeno. Con gli uomini al fronte, il cuore delle fabbriche pulsava grazie alle donne-operaie. Impiegate in massa e occupate a produrre armi e munizioni per la difesa del Paese. Per ore e ore. Di qui la reazione del padronato, preoccupato per la salute e la tenuta fisica delle lavoratrici in relazione alla produzione. «Alle dirette interessate fu quindi proposto di fare dello sport. Invece che darsi alla danza come era abitudine ai tempi, queste donne scelsero però di praticare il calcio. Replicando le scelte di padri e mariti». A scavare nel passato è stato lo storico Xavier Breuil, recentemente intervistato da franceinfo e autore del libro «Histoire du football féminin en Europe» (Nouveau monde éditions, 2011). «Come per il lavoro in fabbrica, c’era una dimensione patriottica nella pratica del calcio. Le donne giocavano per delle opere caritatevoli e per sostenere il Paese durante la guerra». E il successo non tardò a manifestarsi.

Il pretesto e l’ordine ristabilito

A certificarlo sono i numeri: una cinquantina i club attivi a conflitto in corso e circa 150 nel 1920. Con la fabbrica Dick, Kerr & Co di Preston a fungere in qualche modo da ispirazione. Come ricordato da un altro storico - Laurence Prudhomme-Poncet -, il Dick, Kerr’s «Ladies» Football Club registrò una media di 13.000 spettatori nei 67 match disputati nell’arco del 1921. Incassando somme notevoli per l’epoca e affrontando persino delle trasferte per esibirsi in Francia. Il calcio femminile, detto altrimenti, stava diventando uno sport popolare. Appunto. Troppo popolare. Quantomeno per la Federcalcio inglese che, come detto, decise di privare l’universo femminile di questa attività. Il motivo? Stando alla Federazione, i ricavi realizzati con gli incontri non venivano interamente utilizzati per scopi caritatevoli. Un pretesto bello e buono, stando alle ricostruzioni degli esperti. Oddio, se da un lato è vero che una parte di questi soldi servivano per indennizzare le operaie impegnate sui campi e non in fabbrica, dall’altro - ha sostenuto Breuil - «la reale motivazione fu un’altra: i dirigenti non accettavano più il calcio femminile. Quest’ultimo era stato autorizzato tra il 1914 e il 1918 per sostenere lo sforzo della guerra. Il presente, tornato al maschile, necessitava invece di un ritorno all’ordine». Guai a essere messi in ombra, insomma, da partite capaci di attirare anche più di 50 mila persone: successe, nello specifico, al Goodison Park di Liverpool. Il divieto imposto al movimento femminile, va da sé, trovò terreno fertile. Grazie soprattutto alla stampa, volubile quanto la sua retorica e gli stereotipi legati al ruolo «originale» della figura femminile. E con tutte le conseguenze del caso per la popolarità e pure la credibilità del movimento.

La rinascita e il boom

Per ripartire ci vollero addirittura cinquant’anni. L’interdizione cadde nel 1971, con il calcio femminile oramai diffuso nel resto del continente e pure in Nord America. Ah, arrivarono pure le scuse ufficiali della FA. Nel 2008. Con calma. Quando le opere caritatevoli avevano lasciato il posto a un altro concetto: il business. Nel 2010, per dire, la Federazione iniziò col condurre le principali formazioni di vertice al semiprofessionismo. La completa professionalizzazione del massimo campionato inglese - con 12 squadre al via - risale per contro al 2018. E il boom? Quello va ricondotto a due principali fattori: l’avvento della banca Barclays quale partner principale del torneo, nel 2019, e il nuovo contratto di diffusione dello stesso, datato 2021. Un accordo, questo, capace di rimpinguare le casse dei club con 23 milioni di euro. A completare un’opera ancora incompleta, e lungi dall’essere paragonabile a quella maschile, sono stati tanti altri sponsor, consapevoli della rinnovata visibilità del calcio femminile, così come della sua funzionalità nel quadro degli obiettivi aziendali. Sino a un Europeo da record.