Ramon Vega: «Wembley nel ’96? Per non pensarci giocai a carte con Kubi e Grassi»
Inghilterra-Svizzera, nella suggestiva cornice di Wembley, riporta istintivamente alla mente l’indimenticabile partita
inaugurale di Euro 1996, che vide i rossocrociati bloccare sull’1-1 i padroni
di casa. In campo quel giorno per gli elvetici, titolare al centro della difesa
al fianco di Stéphane Henchoz, vi era anche l’allora difensore del Grasshopper.
La nostra lunga chiacchierata in sua compagnia parte proprio da quel
pomeriggio.
Ramon Vega, iniziamo questa intervista con una piccola passeggiata sul viale dei ricordi. Lei quell’8 giugno del 1996 visse in prima persona una delle pagine più salienti della storia del calcio rossocrociato. Che significato dà a quella sfida contro gli inglesi?«Penso proprio che quella partita - ma allargando il discorso, oserei dire quell’epoca - è rimasta in qualche modo incollata ai nostri tifosi. Indelebile nell’immaginario collettivo. Negli anni Novanta ebbe inizio un processo di crescita importantissimo per la nostra Nazionale, protrattosi poi fino all’attuale selezione. All’epoca riuscimmo infatti a qualificarci per due grandi manifestazioni nel giro di un paio d’anni, volando prima negli Stati Uniti per i Mondiali del 1994 e poi in Inghilterra per gli Europei del ’96. Exploit che, in casa rossocrociata, mancavano da quasi un trentennio. Diversi elementi di quel gruppo militavano già o avrebbero presto militato all’estero, e gli sforzi profusi in quegli anni permisero di inserire la Svizzera nella mappa del calcio che conta. Sì, sono fermamente convinto che il livello raggiunto oggi dal movimento elvetico, dai giovani alla prima squadra, sia frutto di quanto seminato in quegli anni».
Ripensando a quell’1-1 strappato a Wembley, le torna alla mente un ricordo in particolare?«Ne riaffiorano tanti, uno più bello dell’altro. A parte forse il gol dell’1-0 di Alan Shearer e la traversa di Marco Grassi (ride, ndr). Scherzi a parte, ricordo perfettamente l’aura che avvolgeva quella partita, che di fatto cambiò radicalmente la mia carriera, permettendomi poi di trasferirmi in Serie A (al Cagliari, ndr), lasciando il Grasshopper nei mesi successivi. La mia generazione è cresciuta incollata al televisore, ammirando l’Inghilterra giocare in quello che all’epoca era ancora il vecchio Wembley. Uno stadio che trasudava storia. Non scorderò mai il nervosismo che avvertimmo nelle ore precedenti al match. La sera prima a stento riuscimmo a dormire. Per stemperare la tensione, Kubi, Marco Grassi, io e altri giocammo un’infinità di partite a carte».
Stasera la Svizzera giocherà nel nuovo Wembley, non quello che ospitò lei e i suoi compagni nel 1996. La magia che ci ha descritto, però, la si avverte anche nell’impianto più moderno?«Assolutamente, Wembley rimane Wembley. È la casa della Federazione calcistica inglese, la più antica al mondo (fondata il 26 ottobre 1863, ndr). Per ogni calciatore calcare quell’erbetta rappresenta un sogno. Un privilegio che i ragazzi di Murat Yakin avranno modo di gustare in prima persona. E che, ne sono certo, ricorderanno per tutta la vita».


Nel corso della sua carriera lei ha sviluppato un amore viscerale per Londra e per l’Inghilterra, dove ha militato più di cinque anni con le maglie di Tottenham e Watford. Che cosa l’ha colpita, affascinandola così tanto?«La cultura inglese, specialmente quella calcistica e del tifo. L’ambiente negli stadi era pazzesco, indescrivibile. Non ho mai sperimentato nulla di simile altrove. Ti veniva la pelle d’oca a giocare davanti a migliaia e migliaia di spettatori, in grado di creare un’atmosfera incandescente. E anche come difensore mi sentivo molto apprezzato. Non c’era infatti bisogno di essere una grande star, per entrare nel cuore dei tifosi. Loro hanno sempre applaudito un tackle ben piazzato quanto un gol. Sì, ho vissuto un’epoca d’oro. Sia per il calcio inglese sia per l’economia d’oltremanica; vissero infatti entrambi un importante boom. Anche in quel caso toccai con mano un processo di crescita, che permise alla Premier League di elevarsi tra i migliori campionati al mondo. Lo dico sempre, vivere a Londra in quel periodo - e negli anni successivi - è stato stupendo. Peccato che oggi, con il pesante fardello della Brexit e della pandemia, non sia più così. Anche la cultura che tanto amavo è un po’ cambiata. E si respira molta più negatività. Non a caso da un po’ di tempo mi sono trasferito in Ungheria con la mia famiglia».
Chiudiamo il cerchio sul Paese di sua Maestà parlando della selezione di Gareth Southgate. I Tre Leoni sono spesso additati come gli «eterni perdenti» del calcio internazionale. Il quarto posto ottenuto ai Mondiali russi del 2018 e la finale persa a Euro 2020 contro l’Italia - peraltro proprio a Wembley - non fanno che validare questa lettura. «Penso però che la squadra attuale disponga di tantissimi elementi di grande talento. In primis il capitano Harry Kane, uno dei migliori attaccanti al mondo. A parer mio la selezione inglese sta attraversando una fase cruciale della sua storia. Sulla scia di quanto seminato tra il 2012 e il 2016 da Roy Hodgson - che in qualità di ct ha stravolto le dinamiche in essere, ridefinendo le gerarchie all’interno del gruppo -, negli ultimi cinque anni si è deciso di far crescere molti giovani dal grande potenziale. Il Mondiale russo e l’Europeo della scorsa estate hanno permesso a questi ragazzi di accumulare un’esperienza che ora, nel pieno della maturità calcistica, dovranno far fruttare in Qatar».
Torniamo al di qua della Manica e apriamo il capitolo Svizzera. Le piace la selezione attuale?«Moltissimo. E mi rende orgoglioso, perché come detto è il frutto di un lungo percorso. Negli anni Novanta la Federazione rossocrociata ha deciso di iniziare a svolgere un lavoro in profondità, investendo tantissimo per cambiare la cultura del calcio elvetico. Un’operazione sviluppata su più livelli, in particolare nell’ambito delle selezioni giovanili. Non è un caso se poi, con il passare degli anni, i risultati sono migliorati sempre di più. È arrivato il successo ai Mondiali U17 del 2009, poi il secondo posto agli Europei U21 del 2011. E oggi la nazionale maggiore annovera tra i suoi leader elementi provenienti proprio da quella generazione, che negli ultimi 10-15 anni hanno fatto fare un deciso salto di qualità alla squadra».


Effettivamente ai suoi tempi, come spiegava bene, partecipare a una grande manifestazione era già un successo. Oggi invece è diventata la normalità, e si pretende di più.«Esatto, è proprio così. Ai miei occhi il cambiamento è tanto radicale quanto evidente. Oggi nessuno guarda più la “Nati” pensando alla piccola Svizzera, come accadeva a noi. Nemmeno le grandi potenze del calcio mondiale. Tutti nutrono un profondo rispetto per la selezione rossocrociata, perché sanno che affrontarla sottovalutandola significa rischiare di rimediare una figuraccia. Questo per me è sintomo di una squadra che si trova ormai ai vertici della piramide calcistica. E la mentalità vincente degli elementi che compongono la rosa attuale è lì a dimostrarlo. Non sarei pertanto sorpreso nel vederla sollevare un trofeo internazionale, nel prossimo futuro. Magari già in Qatar. Perché questo è il genere di obiettivi ai quali ora si può aspirare. È chiaro che ciò comporta anche un innalzamento delle aspettative, perché anch’esse non sono minimamente comparabili a quelle che venivano riposte nella mia Nazionale. Ma questa squadra ha già dimostrato di saperle gestire senza troppi problemi, mantenendo sempre i piedi ben piantati per terra».
Al timone di questa squadra, dopo l’addio di Vladimir Petkovic, è stato messo Murat Yakin. Che, in pochi mesi, ha ottenuto una storica qualificazione diretta ai Mondiali in Qatar, ai danni dell’Italia campione d’Europa. Lei conosce molto bene il «Muri» giocatore, avendo condiviso con lui 87 partite tra Grasshopper e Nazionale. È davvero l’uomo giusto al posto giusto?«Con lui ho condiviso tanti bei momenti. È un po’ più giovane di me (tre anni in meno, ndr), ma ci siamo sempre trovati bene, sia in campo sia fuori. Premettendo che non è mai scontato che un buon giocatore diventi poi un buon tecnico, ammetto che Murat aveva già evidenziato doti importanti quando ancora calcava i campi. Ritengo che alcuni di questi atout, in particolare la sua lucidità e il suo acume, gli siano tornati utili una volta passato dal terreno da gioco alla panchina. E l’esperienza, maturata negli ultimi anni sia in patria sia all’estero, ha poi fatto il resto. Fin qui ha dimostrato grande abilità nel gestire il gruppo rossocrociato, cosa mai scontata siccome da calciatore non pensi ad altro che a te stesso. Dopo l’addio di Vladimir Petkovic, il cui lavoro è stato pure molto encomiabile, Yakin ha raccolto una sfida complicata. E l’ha saputa interpretare alla grande, svolgendo un lavoro incredibile. L’accesso diretto al prossimo Mondiale non è affatto frutto del caso. In pochi mesi “Muri” ha saputo dare la sua impronta alla squadra, trasmettendo una grande calma - derivante dalla sua natura - che infonde sicurezza a tutto il gruppo. La sua organizzazione tattica ha poi permesso di centrare le imprese registrate lo scorso autunno».
Tra i protagonisti della storica cavalcata autunnale, però, non vi era il capitano elvetico Granit Xhaka, fermato prima dal coronavirus e poi da un infortunio al ginocchio. Di fatto il basilese, sotto la guida di Yakin, non ha ancora mai giocato. Ora che è tornato ad aggregarsi al gruppo, secondo lei riacquisirà subito il suo status?«Penso proprio di sì, Murat non è uno sprovveduto e conosce molto bene le qualità del centrocampista dell’Arsenal. È un giocatore dal talento indiscutibile, che ha grande grinta e una mentalità pazzesca. Invero, a volte queste sue peculiarità lo mettono nei guai, perché gli costano qualche cartellino di troppo (ride, ndr). Ma la sua personalità serve come il pane a questa squadra, perché schierando solo i bravi ragazzi non si va lontano. Occorrono pure i ribelli, anche se per mentalità a noi svizzeri solitamente non piace questo genere di personaggio (altra risata, ndr). Chiedete però ai suoi compagni di reparto quanto è importante poter contare sulla sua presenza e la sua costanza di rendimento. Lui è un’ancora nel cuore del centrocampo, che non molla un colpo dal primo all’ultimo minuto».


A portare la fascia di capitano al braccio, in assenza di Granit Xhaka, è stato Xherdan Shaqiri. Il folletto elvetico, poche settimane fa, ha lasciato il calcio europeo per accasarsi in Major League Soccer ai Chicago Fire. Qual è la sua opinione in merito a questa scelta?«Egoisticamente, pensando alla Nazionale, ritengo che la sua decisione porterà dei benefici alla selezione di Murat Yakin. Ora gioca infatti con regolarità e la sua condizione fisica ne gioverà certamente. Ritengo però che abbia deciso di varcare l’oceano un po’ troppo presto. Ma, d’altronde, non è una scelta che mi sorprende».
In che senso?«Stiamo parlando di un calciatore che, per talento puro, a parer mio è tra i migliori al mondo. Un fenomeno dal potenziale enorme. Eppure non è mai riuscito a imporsi ai massimi livelli. Per carità, ha arricchito il suo palmarès giocando nei migliori club d’Europa e sollevando tantissimi trofei. Ma raramente lo ha fatto da titolare, da vero protagonista in campo. Non riesco davvero a spiegarmi cosa non abbia funzionato, ma il fatto che questa dinamica si sia sistematicamente ripresentata - persino a Lione - mi porta a trarre due conclusioni. O lui ha sempre sofferto i sistemi di gioco dei tecnici che lo hanno allenato, che non gli hanno permesso di esprimersi al meglio, oppure non ha l’attitudine giusta per vivere all’interno di un gruppo, perché troppo individualista e sofferente verso la concorrenza. La scelta di trasferirsi a Chicago, dove di fatto è il protagonista assoluto della squadra, mi fa propendere per la seconda opzione. La sua carriera in Nazionale e il ruolo privilegiato che riveste all’interno della selezione elvetica rinforzano questa mia sensazione. Ma non conosco abbastanza bene la sua realtà per esprimermi con certezza».
Chiudiamo questa lunga chiacchierata con la domanda più difficile: chi è il Ramon Vega della squadra attuale?«È davvero complicato rispondere, perché non c’è nessuno come me (ride, ndr). Scherzi a parte, apprezzo davvero molto Nico Elvedi e Manuel Akanji. Sono due difensori centrali moderni, che eccellono in tutto: dal fisico alla tecnica, passando per la tattica. Un po’ mi rivedo in loro, nel senso che anch’io - nonostante l’altezza - facevo della mobilità e della potenza fisica il mio cavallo di battaglia».