Silvano Beltrametti: «Sono felice, anche su una sedia a rotelle»

C’è un prima e c’è un dopo. In mezzo, il dolore. E l’incredulità, per una carriera spezzata. Non la vita però. A quella, l’8 dicembre del 2001, Silvano Beltrametti è rimasto aggrappato. Accettando di destinarla a una sedia a rotelle. Per sempre. «E oggi mi sento fortunato e felice» afferma l’ex sciatore. Dal terribile incidente nella discesa di Val d’Isère, sono trascorsi vent’anni.
Le immagini, tuttavia, restano. Indelebili. Toccanti, anche. Si mischiano ai ricordi. Rievocano sensazioni contrastanti. Dall’angoscia a qualcosa di simile al sollievo. Perché alla fine, l’esistenza ha avuto la meglio sulla morte. Malgrado tutto. Malgrado la radiografia dell’ospedale universitario di Grenoble. Una linea del tempo. Incrinata, irrimediabilmente. Come la spina dorsale di un 22.enne, all’altezza della sesta e della settima vertebra. Con lesione del midollo spinale. Prima, solo poco prima, era arrivato il secondo podio di una parabola sportiva albeggiante. Prima c’era la neve. E la velocità, superiore ai 100 chilometri orari e - maledetto sbilanciamento - capace di trasformare gli sci in rasoi affilati. Quindi un varco, spaventoso, in quelle che oramai non erano più reti di protezione. Infine, un traguardo di rocce. E una diagnosi che è un colpo al cuore e al futuro: «Silvano, lei sarà paraplegico a vita».
Le conquiste del presente
A vent’anni di distanza, Beltrametti dà del tu alla serenità. La voce è calma, la testa libera dai fantasmi e dai rimpianti. È trascorso tanto tempo, sì, ma una tale forza d’animo impressiona. «Per me l’8 dicembre è una sorta di secondo compleanno. Dopo tutto, quel giorno sono sopravvissuto» ci dice il grigionese, oggi proprietario di un hotel a tre stelle nell’amata Lenzerheide. «Durante la pandemia, specie nella prima fase segnata da forti restrizioni e confinamenti a casa, i momenti di riflessione, più intimi, non sono mancati. In queste ore, invece, non ho avuto modo di soffermarmi troppo sulla ricorrenza ventennale del mio incidente. Il lavoro in albergo è parecchio, la stagione invernale è appena scattata, le prenotazioni sono buone». Già, la neve e i suoi sport continuano ad accompagnare le giornate di Silvano. «Ho ripreso in mano la mia vita. Completamente. Costruendo molte cose. L’attività alberghiera che condivido con mia moglie Edwina costituisce la conquista forse più importante. Ma c’è anche lo sport, che continuo a praticare con grande piacere. D’inverno mi godo i pendii innevati sul mio monosci, d’estate vado in handbike, mentre in settembre accompagno sovente gli amici in yacht. Insomma, sono riuscito a incastrare i diversi tasselli del mio puzzle. E la mia vita, oggi, può definirsi piena e felice».


Un percorso, poche ombre
La parte iniziale di questa prova fuori pista, va da sé, non è stata semplice. «Naturalmente - rileva Beltrametti - è stato un percorso. Più complicato, nella prima fase, quando si è trattato di vincere la sfida per l’indipendenza. Tutto, comunque, è andato piuttosto rapidamente. Quando sono tornato a Lenzerheide, dopo un anno di riabilitazione a Nottwil, i primi sei mesi sono stati di puro apprendimento. Un poco alla volta, una piccola conquista quotidiana dopo l’altra. Questo processo di accettazione e ricostruzione è durato tra i due e i tre anni. Al termine dei quali ho compreso, definitivamente, di essere una persona fortunata, praticamente autonoma e - anche se su una sedia a rotelle - nella condizione di poter fare ancora molte cose». Lo sguardo di Silvano Beltrametti, dicevamo, incontra poche zone d’ombra. «Tristezza, frustrazione e rabbia non fanno parte del mio quotidiano. Davvero, sono sentimenti che emergono raramente. Sono una persona positiva. E se ci sono giornate storte, in cui le cose non vanno come dovrebbero, non lo riconduco di certo al mio incidente o alla conseguente paraplegia. Semplicemente è la vita, che al sottoscritto così come a tante altre persone può riservare dei momenti negativi».
«Paura? No, conta il rispetto»
Eppure da alcuni quesiti è complicato sfuggire. Anche vent’anni dopo. Soprattutto vent’anni dopo, con la sicurezza degli atleti che - tra airbag e materiali di protezione - ha conosciuto un’evoluzione a dir poco significativa. «Ma anche questo aspetto non mi urta» assicura Beltrametti, una pista dedicata al suo nome proprio a Lenzerheide. «I progressi fanno parte della vita e di riflesso pure dello sport. Certo, dopo il mio infortunio sono stati fatti ulteriori passi avanti. E io stesso, da presidente del comitato organizzatore delle finali a Lenzerheide, ho toccato con mano la portata di questo tema. Si cerca di essere perfetti, di tutelare il più possibile gli sciatori. Poi, però, c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo e alle migliori intenzioni. Detto ciò, ho sempre evitato di pormi troppe domande sulla genesi del mio incidente. E sull’eventualità che non mi sarebbe potuto accadere in altre circostanze. Con i se e con i ma non si convive serenamente». Il 42.enne di Valbella era ed è consapevole dei rischi legati allo sci alpino. Ieri e oggi. «Come sapevo bene di avere uno stile di sciata per certi versi sfrontato, sempre alla ricerca del limite» sottolinea. «Chi gareggia a livello agonistico non deve avere paura. Come potrebbe, d’altronde. No, è la parola sbagliata. Ciò che conta veramente, a maggior ragione negli sport estremi, è il rispetto. E la preparazione. Coscienti che lo spettacolo, l’azione e purtroppo i gravi infortuni fanno parte del gioco. Come l’Hausbergkante è parte della discesa di Kitzbühel e le Gobbe del cammello del Saslong. A fare la differenza, semmai, è il carisma dei singoli atleti. Ma è ovvio che si affronta la Streif solo dopo un allenamento mirato e non al primo giorno sugli sci. In fondo è una lezione con la quale mi confronto tuttora, in monosci, di fronte a una pista nera e non blu. Devo essere concentrato, pronto e, ribadisco, rispettoso. Riuscirci significa ottenere un’ulteriore frammento di felicità».


Cosa manca, cosa c’è
Beltrametti, subito dopo la drammatica caduta del 2001, fece fatica a convivere con quello che era stato (e sarebbe dovuto essere) il suo mondo. Le Olimpiadi di Salt Lake City, per le quali aveva sudato tanto, non ebbe la forza di guardarle in tv. «Oggi al contrario seguo le gare di Coppa del mondo senza problemi. Anche quelle di Val d’Isère. Impegni in hotel permettendo». C’era un prima. In mezzo il dolore. Silvano Beltrametti, però, non si è arreso. E ha deciso di affrontare con il sorriso il dopo. «A volte mi manca tuffarmi in mare o la semplicità della vita di chi cammina. Ma grazie altresì alla concretezza del mio lavoro sono orgoglioso di poter essere felice in questo pezzo della vita».
Lo sci alpino e la morte: da Toni Mark a David Poisson
La storia dello sci alpino è segnata dai gravi infortuni. E, purtroppo, anche dalla morte. Il 13 novembre del 2017, David Poisson è deceduto dopo essere uscito di pista durante un allenamento a Nakiska, in Canada. Il francese è stato la dodicesima vittima del Circo bianco dal 1959 e il decesso dell’austriaco Toni Mark. Prima di Poisson, il circuito aveva pianto un’altra atleta transalpina: Régine Cavagnoud, a cui - nell’ottobre del 2001 e sul ghiacciaio austriaco del Pitztal - era stato fatale lo scontro con un allenatore tedesco. A perdere la vita in gara - nella discesa di Garmisch-Partenkirchen del 29 gennaio 1994 - era stata pure la tedesca Ulrike «Ulli» Maier. Nel 2009 la Svizzera era rimasta col fiato sospeso per la grave caduta (seguita da tre settimane di coma artificiale) di Daniel Albrecht, a Kitzbühel.