«Vi racconto la mia fuga dall’inferno delle ginnaste»

«L’inferno delle ginnaste». Con questo titolo in prima pagina, ieri «Le Temps» ha dato voce alla ticinese Lisa Rusconi, ex capitana della nazionale di ginnastica ritmica. La 22.enne di Cugnasco, studentessa a Ginevra, ha denunciato le violenze fisiche e psicologiche subite dalle sue allenatrici – tutte dell’Europa dell’est – nei 5 anni trascorsi a Macolin, tra il 2012 e il 2017. L’abbiamo raggiunta.
Insulti, minacce, violenze fisiche, manipolazioni psicologiche. «Ci trattavano come delle nullità, disumanizzandoci», racconta Lisa Rusconi. «Ci dicevano che eravamo stupide e grasse. Ci costringevano a perdere peso in pochissimo tempo, ci impedivano di bere con dei ricatti durante gli allenamenti, ci mettevano le une contro le altre». Lisa sognava le Olimpiadi, ma si è ritrovata in un incubo: «Nel 2017 ho mollato tutto. Dovevo decidere se vivere o morire». Parole durissime, cariche di rabbia e dolore, ma anche di forza e coraggio: «Se fossi andata avanti un’altra settimana, non so come sarebbe finita la storia».
Dopo l’addio alla ginnastica ritmica, Lisa ha iniziato il suo processo di rinascita. «La mia ricostruzione», come la chiama lei. «Avevo dei sintomi da stress post-traumatico. Non sapevo più chi fossi, non provavo sentimenti, non riuscivo a dormire. Mi hanno prescritto sonniferi e antidepressivi. Sono andata a Losanna e mi sono rivolta alla Divisione interdisciplinare della salute degli adolescenti. Con l’aiuto di una psicologa ho imparato ad accettare quanto mi era successo e a conviverci. Ho capito cosa fosse giusto e cosa no».

Inascoltata anche in Ticino
Insieme ad altre ex compagne di nazionale, negli scorsi giorni Lisa ha trovato la forza di denunciare i fatti e di renderli pubblici. «Prima o poi questa storia doveva uscire», ci spiega. «Già tre anni fa ebbi un incontro con la Federazione svizzera di ginnastica: raccontai tutto quanto, ma purtroppo non si mosse niente. Mi rivolsi anche ad alcuni membri dell’Associazione cantonale ticinese, esponendo dei fatti, ma anche stavolta senza esito. Della serie: ‘‘Okay, ti è successo questo, ma noi non possiamo farci nulla’’. Io non so se in Ticino ci fosse la consapevolezza di quanto accadesse a Macolin, ma da quel momento ho tagliato tutti i ponti».
La denuncia di Lisa è così passata attraverso la stampa: «Durante l’intervista con Laurent Favre, il giornalista di Les Temps, mi sono sentita alleggerita. Per la prima volta la mia storia finiva nero su bianco. Ieri, quando è uscito l’articolo, ero un po’ in ansia per la reazione che avrebbero avuto le persone a me vicine. Soprattutto i miei genitori e le mie amiche, che non conoscevano la vicenda. Ho ricevuto tante testimonianze di sostegno, di comprensione. Per cambiare le cose, bisogna parlarne».


Il momento giusto
È stata la testimonianza di un’altra ginnasta, pubblicata sul Blick la settimana precedente, a convincere Lisa: «Da un paio d’anni io e tre ex compagne stavamo progettando la pubblicazione di un libro. Quando è uscito l’articolo sul Blick, però, è scattata una molla. Abbiamo capito di dover fare subito la nostra parte per sostenere quest’altra ragazza. La tempistica era perfetta. Anche perché alcune persone avevano iniziato a negare».
Come detto, neppure i genitori di Lisa conoscevano tutta la storia, fatta di maltrattamenti e prevaricazioni. «Eravamo manipolate affinché non raccontassimo in giro ciò che succedeva a Macolin. Se avevamo un problema, dovevamo rivolgerci all’allenatrice. Lei assumeva i ruoli di mamma, psicologa, nutrizionista, medico. Così il problema restava lì. Nessuno, all’esterno, poteva vederlo, capirlo e sentirselo dire da una ginnasta».
A casa, dunque, nessuno poteva immaginare le sofferenze di Lisa: «Sono molto brava ad indossare una maschera, a mettermi in faccia un sorriso e fare finta che vada tutto bene. Inoltre sentivo il bisogno di disconnettermi: il sabato, quando tornavo in Ticino, volevo dimenticare tutto ciò che mi era successo durante la settimana. Non volevo neppure che i miei genitori reagissero e mi impedissero di continuare con la ginnastica. Avevo degli obiettivi da raggiungere. Se fossi andata via da Macolin, il mio sogno sarebbe svanito».

Resistenza silenziosa
Dietro quel sogno, però, si celava un incubo: «Quando mi sono trasferita a Macolin, nel 2012, avevo solo 14 anni e non sapevo come funzionassero le cose. Credevo che quello fosse l’unico metodo per poter raggiungere certi traguardi. Lì c’erano delle ragazze molto più grandi di me. Mi sono detta che se ce l’avevano fatta loro a resistere fino a 23-24 anni, avrei potuto riuscirci anch’io. Ero un po’ naïve, incosciente. Non sapevo cosa aspettarmi».
La dura realtà si è subito palesata: «Per capire come sarebbero andate le cose mi è bastata la prima settimana di allenamenti. Dopo un solo riscaldamento mi sono sentita svenire, ma sono andata avanti senza lamentarmi perché tutte facevano così. Io ero solo l’ultima arrivata, non potevo mettermi a obiettare. Il punto di rottura tra il normale sacrificio e la totale sofferenza sono stati i primi insulti, ma anche lì nessuno reagiva. Mi sono detta: ‘‘Tieni duro, fai tutto quello che fanno le altre’’».
Lisa ha resistito cinque anni, poi non ce l’ha più fatta: «La mia ultima allenatrice è stata terribile. Mi ha distrutta mentalmente. Dalla fine del 2016 a metà del 2017, quando ho deciso di dare le dimissioni, ho vissuto otto mesi d’inferno. Quando me ne sono andata, nessuna delle mie allenatrici si è fatta sentire. Non una telefonata, non un messaggio. Da quanto ho poi saputo, erano felici del mio addio».
Nessun appiglio
A Macolin, Lisa non ha mai trovato appigli e sostegno: «Ci ho provato, rivolgendomi alla psicologa del centro. Le ho detto che non ce la facevo più, che continuavo a piangere, ma lei non mi ha saputo aiutare, invitandomi a parlarne direttamente con le mie allenatrici».
Che la situazione non fosse affatto normale, Lisa Rusconi lo ha capito meglio nel 2014, durante una tappa di Coppa del mondo a Stoccarda: «Parlando con delle ragazze della squadra italiana, raccontai dei maltrattamenti e degli insulti subiti. Mi dissero che da loro questo non sarebbe mai potuto accadere. Il nostro sport è tradizionalmente dominato dalle ragazze dell’est, ma le azzurre hanno saputo ottenere dei risultati eccellenti. Questo dimostra che altri metodi esistono. E funzionano. Disumanizzare l’atleta non è certamente la via da percorrere».


Non finisce qui
In seguito agli articoli delle ultime settimane, la Federazione svizzera di ginnastica ha finalmente reagito. Il 24 giugno, dopo un’indagine interna, ha dapprima licenziato due allenatrici bulgare, Iliana Dineva e Aneliya Stancheva. Poi, martedì scorso, ha sospeso con effetto immediato e fino a nuovo avviso gli allenamenti delle squadre nazionali e del progetto CE juniors. Verrà inoltre aperta un’indagine esterna.
«La Federazione non poteva più far finta di niente», replica Lisa Rusconi. «Ha dovuto reagire per forza. Per quanto ne so, usciranno ancora tante altre storie come la mia. Delle mie amiche hanno parlato alla televisione romanda e alla radio. Siamo solo all’inizio. Io e altre quattro ragazze ci siamo unite in questa battaglia. Con noi ci sono una psicologa e due dottori. Non siamo da sole, abbiamo dei medici dalla nostra parte. Loro hanno visto che cosa ci è capitato».
Lo sport più bello del mondo
A soli 4 anni, quando ha mosso i primi passi nella SFG Locarno, Lisa considerava la ginnastica ritmica lo sport più bello del mondo. Un’attività fatta di sacrifici, rigore e disciplina, sì, ma anche di eleganza e felicità. «Per me è ancora lo sport più bello del mondo», afferma oggi, nonostante tutto ciò che le è successo. «Lo seguo ancora, lo guardo volentieri. Io non odio la ginnastica ritmica. Non ho nessun desiderio di distruggere questa disciplina. Il mio obiettivo è un altro: non voglio più sentire che una ragazza ha smesso perché si è sentita distrutta fisicamente o nella testa. Bisogna smettere soltanto perché si sono raggiunti i propri obiettivi personali, o perché si ha voglia di fare altro nella vita, ma non perché si è arrivati al limite e non c’è più altra soluzione».