Hockey

Zwerger: «I miei amici hanno ragione, sono fatto per stare ad Ambrì»

Dall'amore per la curva alla sofferenza psicologica, passando per il contratto in scadenza - Con il numero 16 dei biancoblù abbiamo ripercorso un cammino fatto di luci, ma anche di ombre - Stasera i leventinesi ospitano il Bienne
Il 27.enne austriaco, idolo della curva biancoblù, ha sofferto di forti attacchi di panico, ma ora ha ritrovato il sorriso. © Keystone/Samuel Golay
Nicola Martinetti
28.11.2023 06:00

Da ragazzino scafato a padre di famiglia, in Leventina Dominic Zwerger è cresciuto. Maturato, anche. Al pari di un club che negli anni ha cambiato il proprio volto. Con il numero 16 abbiamo parlato di questo e tanto altro, ripercorrendo un cammino fatto di luci, ma anche di ombre.

Dominic, questa è la tua settima stagione in biancoblù. Ogni tanto ci pensi?
«Sinceramente sì, perché per me è qualcosa di speciale. Non capita spesso di vedere un giocatore rimanere tanto a lungo nello stesso club. È la testimonianza di quanto a me e alla mia famiglia piaccia vivere qui. E della lealtà che nutro nei confronti dell’HCAP».

Ormai è caduto in prescrizione e si può dire: chi fu il vero artefice del tuo approdo in Leventina nel 2017? Negli anni si sono sentite diverse versioni di questa storia...
«La verità è che furono in tanti a metterci lo zampino (ride, ndr). In primis Kevin Constantine, in passato coach dei biancoblù, che all’epoca era il mio allenatore agli Everett Silvertips (WHL). Non so se mise una buona parola per me, probabilmente sì. Fatto sta che nel dicembre del 2016 il team manager dei leventinesi Alessandro Benin venne a visionarmi in Nord America. L’Ambrì era interessato a ingaggiarmi, ma in quel momento non se ne fece nulla. A fine stagione Ale (Benin, ndr) mi ricontattò e mi disse che la società aveva cambiato il direttore sportivo, e che ora al timone c’era Paolo Duca (prima il ds era Ivano Zanatta, ndr). “Duke” e Luca Cereda vennero a farmi visita a casa mia, in Austria, parlando con me e la mia famiglia. Furono molto convincenti, non ci misi molto a firmare il contratto dopo quell’incontro».

Quando ho avuto modo di toccare con mano cosa vuol dire l’Ambrì, beh, mi sono innamorato

A 21 anni sei dunque approdato in Leventina e hai visto la Valascia per la prima volta, incastonata in un paesello di montagna. All’epoca sette stagioni in quell’angolo di mondo ti sarebbero parse plausibili?
«No, penso che se me lo avessero detto allora, non ci avrei creduto (altra risata, ndr). Ma quel primo impatto fu altresì fuorviante perché non sapevo ancora cosa fosse la realtà biancoblù, quella vera. Avevo parlato con alcuni esponenti del club e basta. Quando poi ho avuto modo di toccare con mano cosa vuol dire l’Ambrì, beh, mi sono innamorato».

Oggi dirigi il geyser sound quando vincete, e se non puoi scendere sul ghiaccio segui le partite in curva con i tifosi. L’HCAP, ormai, sembra essere parte di te...
«A questo proposito ti racconto un aneddoto. In occasione dell’ultimo derby alla Gottardo Arena, dei miei amici sono venuti a vedermi giocare dal vivo. Per alcuni di loro era la prima volta qui ad Ambrì. Dopo la partita mi hanno detto una cosa che non dimenticherò: “Wow Dom, i tifosi ti amano, e tu ami loro. Cose del genere non si vedono spesso nel mondo dello sport. Sei fatto per stare qui, appartieni a questa realtà”. E hanno ragione. La curva per me c’è sempre stata, inclusi i momenti di difficoltà. È anche per loro che ho sempre deciso di rimanere».

Il tuo contratto tuttavia scadrà a fine stagione, e i rumors di mercato stanno già impazzando. Sembra ad esempio che tu piaccia al Bienne, vostro avversario odierno. Ma riesci a immaginarti lontano da Ambrì?
«Sempre lo stesso amico di prima mi ha detto che non mi ci vedrebbe proprio in un’altra squadra. Anzi, lo addolorerebbe sapermi altrove. Gli ho risposto che ha ragione, la penso allo stesso modo. Vorrei rimanere in Leventina il più a lungo possibile, ma so anche che alla fine questo rimane pur sempre un business. Vedremo».

Rinnovo? Vedrete tutti presto

Da come ne parli sembra che se l’Ambrì dovesse sottoporti un rinnovo, la tua firma sarebbe una semplice formalità. Mi sbaglio?
«Vedrete tutti presto, abbiate un po’ di pazienza (sorride, ndr)».

Torniamo allora a questi ultimi sei anni. Nelle prime stagioni sulle tue spalle - e quelle di pochi altri - gravavano delle enormi responsabilità. Oggi invece, complice il progressivo miglioramento del roster, non è più così. Ti rattrista o ne sei felice?
«È stato bello vestire i panni del protagonista, non lo nego, ma è ancora più divertente far parte di un gruppo migliore, che dispone di più talento. Anche perché è fedele testimonianza della crescita di tutta la società. Oggi mi importa di vivere delle stagioni storiche, speciali. Non del bottino personale. Detto senza fronzoli: se mi offrissero la possibilità di vincere il titolo, senza però mettere a referto un solo punto, firmerei senza fiatare. Comunque io provo sempre a dare il mio contributo. A volte sono piccole cose come un tiro bloccato o un check, altre volte sono reti e assist. E altre ancora dei consigli ai più giovani, che mi ricordano me qualche stagione fa. Penso ad esempio a Tommaso De Luca, spesso mio compagno di linea. Un talento fantastico. Sul ghiaccio vediamo il gioco allo stesso modo e fa parte dei miei compiti, ora che sono più esperto, aiutarlo a crescere. Quest’anno tutte queste cose mi riescono più facilmente perché mi sento meglio. Ho anche perso un po’ di peso. E poi, per chiudere il discorso, non è così male che oggi il mio ruolo sia diverso. Ora i giornalisti non mi tormentano più se trascorro qualche match senza segnare (ride, ndr)».

Come il tuo ruolo, anche tu sei cambiato molto. Da ragazzino scafato sei diventato un padre di famiglia. Capace di superare le situazioni più difficili. Ti va di parlarne?
«Certamente».

Un anno fa stavi lottando per uscire da un tunnel di disagio psicologico, costellato da forti attacchi di panico. Una situazione sorta dopo alcuni infortuni seri. Hai scelto di parlarne apertamente, prima al Tages Anzeiger, poi in un documentario realizzato da MySports. Come mai?
«Ho attraversato un periodo estremamente buio. Non riuscivo nemmeno a uscire dalla mia camera talmente stavo male. Avevo paura di avere degli attacchi davanti ai miei amici, era una cosa che mi stava divorando dall’interno. È stato in quel momento, uno dei più bassi della mia esistenza, che alcune persone si sono fatte avanti dicendomi che anche loro avevano sofferto come me. E che se avessi deciso di parlarne apertamente e pubblicamente avrei potuto ispirare altri che soffrivano in silenzio, traendone a mia volta beneficio. Temevo di essere giudicato. Etichettato come “debole”. Invece dopo averne parlato è accaduto il contrario. Sono stato inondato di messaggi di supporto, affetto e sostegno. Ho persino ricevuto delle scuse. Sul ghiaccio non rendevo e la gente mi criticava senza conoscere tutto il contesto. Dopo la mia apertura, qualcuno si è pentito di avermi attaccato così ferocemente. In generale parlare del mio disagio è stato come togliersi un peso dal petto, sono tornato a respirare. Invito chiunque stia vivendo la medesima situazione a fare lo stesso: parlarne con chi vi vuole bene non è mai un errore».

Negli ultimi anni le ammissioni di sofferenza nell’hockey sono diventate più frequenti. L’ultimo caso è quello di Samuel Girard, difensore dei Colorado Avalanche, che ha rivelato di essere afflitto da ansia e depressione. In un mondo tendenzialmente chiuso come quello del disco su ghiaccio, queste aperture sono da interpretare come un buon segno?
«Assolutamente sì. La verità è che per ogni giocatore che decide di parlarne apertamente, ce ne sono decine che soffrono in silenzio. Spero che anche grazie al mio contributo si possa presto sradicare questa falsa convinzione che chi soffre è debole. Nessuno ti prenderà mai in giro se sei in difficoltà, è umano. E soprattutto non sei da solo. Ho potuto toccare con mano quanto aiuto e sostegno si possa ricevere in casi come questi».

La vittoria in Coppa Spengler mi ha aiutato molto: ho riassaporato il gusto della gioia pura

In salotto hai appeso una foto che raffigura te e il resto della squadra con la Coppa Spengler. Che ruolo ha avuto quel successo, nel tuo percorso personale?
«Mi ha aiutato tanto. Verso fine 2022, dopo un’estate e un autunno infernali, iniziavo a stare meglio. Ma non ero ancora al 100%. A Davos ho riassaporato il gusto della gioia pura. Vincere qualcosa con questa squadra, la mia seconda famiglia, è stato fantastico. So che non è accaduto per merito mio, sono conscio che il mio hockey non era all’altezza, ma non mi importa. È stato bello esserci e vivere quel momento, mi ha fatto bene. E poi io ho sicuramente guidato il gruppo nei festeggiamenti, quindi va bene così (altra risata, ndr)».

Tra qualche settimana tornerete nei Grigioni per difendere il titolo. Ci state già pensando?
«Certamente, stiamo iniziando a pianificare i vari aspetti del nostro soggiorno a Davos. Tra l’altro fra un paio di settimane io e mia moglie Erica dovremmo festeggiare pure la nascita della nostra secondogenita. Il piccolo Liam avrà presto una sorellina (ride, ndr). Insomma, tra il parto, il Natale, la Coppa Spengler e la fine dell’anno, ci attende un periodo ricco di gioia ed eventi eccitanti».

Sul ghiaccio il sorriso va però ritrovato più in fretta, dopo i due k.o. dello scorso weekend...
«È stato un fine settimana negativo, ma non sono preoccupato. Specialmente a Zurigo, ho visto una squadra determinata e in partita. E poi dopo sette vittorie di fila, un paio di battute d’arresto ci possono stare. L’importante è ritrovare subito il feeling con il successo, già questa sera contro il Bienne. Così da apparecchiare al meglio il derby».