Marco Campanella: «La cucina è un atto d'amore, va oltre la caccia alla terza stella»
C’è un momento, durante l’intervista, in cui la voce di Marco Campanella si spezza. Succede quando si parla di sua figlia, dell’abbraccio che lo aspetta al rientro da Arosa, dove guida il ristorante invernale della Brezza, all’interno dello splendido Tschuggen Grand Hotel. Un abbraccio che azzera ogni fatica, ogni tensione, ogni dubbio. Ed è lì, forse più che nei riconoscimenti ufficiali, che si coglie chi è davvero Campanella: un fuoriclasse della cucina che non ha mai smesso di dare peso alle relazioni vere. Anche adesso che è stato nominato Chef dell’anno da Gault&Millau, massimo riconoscimento della gastronomia svizzera, con 19 punti su 20 — un punteggio che segna l’ingresso nell’élite assoluta.

Marco, sei appena tornato ad Ascona per la stagione primaverile ed estiva della Brezza all’Eden Roc.
È un momento speciale. L’Hotel Eden Roc ha appena riaperto dopo sette mesi di lavori. È tutto più luminoso, più elegante, con dettagli che valorizzano la vista sul lago. E poi c’è questa cosa bellissima: l’intera struttura è ora alimentata in modo 100% neutrale dal punto di vista climatico. È un segnale importante. Con la mia brigata siamo pronti ad accogliere gli ospiti già da Pasqua, con un menu dedicato, prima di riaprire al completo dal 2 maggio.
Com’è vivere diviso tra Ticino e Grigioni, gestendo due ristoranti così importanti?
Era il mio sogno. Quando nel 2018 sono diventato executive chef, due anni dopo ho detto ai proprietari che mi sarebbe piaciuto lavorare in un doppio progetto: uno stagionale invernale e uno estivo. Pochi mesi dopo, Arosa è diventata realtà. I primi anni erano più semplici, poi con la nascita di mia figlia ho vissuto un blackout creativo. Mi sembrava di non riuscire più a scrivere un menu. Lì mi ha aiutato mio fratello, anch’egli ristoratore, che mi ha detto: «Fai quello che sai fare. Fidati dei tuoi piatti e del tuo team». Aveva ragione.

E quando hai scoperto di essere stato nominato Chef dell’anno da Gault&Millau, cosa hai provato?
Non lo sapevo. Ero con i miei colleghi quando mi hanno mostrato un messaggio sul telefono: avevo saputo del premio, ma non dei 19 punti. Ci siamo abbracciati e ci siamo messi a piangere. Sul palco ho visto i miei genitori commossi, ed è lì che ho capito davvero cosa significasse quel riconoscimento. È un premio a tutto quello che c’è dietro: la mia famiglia, il mio team, i sacrifici. Sono momenti che ti restano dentro.
Parli spesso della tua brigata, che è giovane e affiatata. Come trasmetti i tuoi valori in cucina?
Con l’esempio. Io pulisco ancora la cucina, come quando ho iniziato. Se serve, lavo i piatti. Non è un gesto simbolico: è parte del lavoro. I ragazzi devono vedere che lo chef non è solo colui che comanda. E poi cerco sempre di farli crescere: li coinvolgo nei menu, condividiamo idee, sperimentiamo insieme. Sei teste pensano meglio di una sola. Questo spirito di squadra è ciò che ci ha portato fin qui.
La tua cucina è sempre più internazionale. Ma il legame con il Ticino rimane fortissimo.
Assolutamente. La mia cucina è aperta al mondo, ma parte da qui. Uso i prodotti ticinesi, li cerco con cura: pomodori locali, carni, pesci. Il territorio è parte di ogni mio piatto. Poi ci mettiamo le tecniche, le contaminazioni dai viaggi in Asia, Sudamerica… ma il cuore rimane qui. Anche perché il cliente, quando viene, deve poter leggere nei nostri piatti un’identità precisa, riconoscibile.

C’è un piatto che porti dentro da sempre?
I cavatelli al pomodoro. Mia figlia li adora. È un piatto della memoria, semplice, che mi riporta alla cucina di mio padre e di mia madre. E poi la cicoria impanata, con pane e fave. Sapori antichi che non passano mai. Quando siamo a casa, cuciniamo cose così: una pasta, verdure alla griglia. Mia moglie è portoghese, mescoliamo un po’ le culture, anche per nostra figlia. È bello vederla crescere con gusto e curiosità.
Hai raggiunto traguardi altissimi. Hai mai pensato alla terza stella?
Chi fa questo mestiere ci pensa, è inevitabile. Ma non è un’ossessione. Se punti tutto solo lì, ti perdi il bello del viaggio. Io voglio crescere con la mia squadra, migliorare ogni giorno, soddisfare i clienti. I riconoscimenti arrivano se c’è sostanza, se ogni dettaglio è curato, se la passione è vera. E poi c’è la mia famiglia. Loro mi aiutano a rimanere con i piedi per terra. Senza il loro amore, la loro comprensione, non sarei dove sono ora.
E tua figlia cosa ti sta insegnando?
A rallentare. A godere delle piccole cose. Lei mi guarda e dice «Papino va a lavorare?», ma poi corre ad abbracciarmi. E io so che ogni sforzo ha un senso. Cerco di insegnarle quello che ho imparato: dire grazie, restare umili, essere gentili. Le stesse cose che insegno ai ragazzi in cucina. Perché cucinare, in fondo, è un atto d’amore. E chi ama, non smette mai di imparare.