L'intervista

Alain Berset a ruota libera sulle sfide della sanità

Dopo l’annuncio della «stangata» sui premi di cassa malati, il presidente della Confederazione è stato ospite oggi pomeriggio a Lugano per parlare del sistema sanitario – Lo abbiamo intervistato
©Gabriele Putzu
Paolo Gianinazzi
06.10.2023 18:45

Dopo l’annuncio della «stangata» sui premi di cassa malati anche per il 2024, il presidente della Confederazione e «ministro» dell’Interno Alain Berset è stato ospite oggi pomeriggio al Palazzo dei Congressi di Lugano per parlare delle sfide del sistema sanitario. Lo abbiamo intervistato. 

Lei ha sempre sostenuto che per risolvere il problema dell’aumento dei premi di cassa malati servono riforme, non rivoluzioni. Ora però la situazione si è aggravata parecchio. E le soluzioni più radicali, come la cassa malati unica o i premi in base al reddito, hanno sempre più sostegno. È sempre convinto che le riforme siano sufficienti?
«Dipende di quale riforma stiamo parlando. Evidentemente, se avessimo potuto far passare le riforme proposte dal Consiglio federale, esse avrebbero aiutato molto. Il Consiglio federale è quindi dalla parte delle riforme forti. Quella del 2019 e del 2022 erano riforme forti che avrebbero avuto effetti importanti. Ma dal Parlamento non sono uscite quelle riforme proposte dal Governo. Sono state completamente indebolite. Non si può quindi dire che, siccome ci sono state riforme che non hanno praticamente cambiato nulla, il sistema delle riforme abbia fallito. No, servono delle riforme forti. Oggi si parla solo di riforme deboli, oppure di rivoluzioni. Ma tra queste due opzioni c’è una via di mezzo da perseguire. Ed è ciò che il Consiglio federale ha cercato di fare. Dobbiamo rivoluzionare il sistema? Se ne può discutere, ma non penso che cambierebbe velocemente la situazione. Ciò che invece potrebbe cambiare in fretta lo stato delle cose, sarebbe fare delle vere riforme».

L’attuale impasse è anche dovuta al fatto che nel sistema ci sono molti attori diversi con interessi divergenti. Il margine di manovra del Consiglio federale è troppo limitato?
«È forzatamente molto debole. Perché tutto ciò che è struttura e organizzazione ospedaliera non è compito della Confederazione, ma dei Cantoni. Tutto ciò che è approvvigionamento delle cure è anche compito dei Cantoni. Tutto ciò che riguarda le tariffe è gestito dai partner tariffali. Il Consiglio federale ha la responsabilità con il Parlamento dell’insieme del sistema. Un sistema in cui, appunto, ci sono molti attori. Ci sono alcuni aspetti molto positivi, ma ci sono anche aspetti negativi: ci sono talmente tanti attori con diverse responsabilità che si può voltare lo sguardo dai problemi e dire: “Non è colpa mia, tocca agli altri”. Penso che da questo punto di vista potremmo migliorare molto la situazione, se aumentassimo in maniera molto importante la trasparenza, dicendo chiaramente chi deve fare cosa».

Che cosa si attende dai Cantoni? Pensa che il sistema dovrebbe essere centralizzato, dando più potere alla Confederazione?
«Ciò che ci attendiamo dai Cantoni è che facciano il loro lavoro: ad esempio attuando le riforme ospedaliere necessarie e garantendo una pianificazione ospedaliera più efficace, compresa una pianificazione intercantonale laddove è possibile. Poi, ai Cantoni chiediamo di essere molto più attivi nel verificare e controllare il buon sviluppo dell’offerta sanitaria sul loro territorio. Detto diversamente: i Cantoni sono chiamati a utilizzare gli strumenti a loro disposizione e avere anche il coraggio di dire: di questi due o tre studi medici non abbiamo bisogno. Ai Cantoni chiediamo di darsi gli strumenti per meglio pilotare l’offerta. Detto ciò, bisogna pure riconoscere che nei Cantoni dove è stata proposta una riforma ospedaliera coraggiosa, in generale la popolazione ha detto no. E alcune iniziative popolari sono state fatte per cementare la situazione. Ma poi, se impediamo pianificazioni coraggiose, non bisogna sorprendersi che i costi aumentano».

Finanziare in maniera separata i costi per le persone anziane e i giovani? Non funziona. Sarebbe la fine della solidarietà. Vorrebbe dire che le persone anziane e malate dovrebbero arrangiarsi per risolvere i propri problemi e invece chi è giovane e sano non finanzierebbe nulla solo perché è in buona salute

Sarebbe favorevole a attribuire la competenza delle pianificazioni ospedaliere alla Confederazione?
«No, a priori no. Sarebbe una rivoluzione. Sono molto scettico su questa idea. Se i Cantoni volessero parlarne con la Confederazione saremmo aperti alla discussione. Ma non è un impulso che può venire dalla Confederazione».

Per una semplice questione demografica la popolazione sta invecchiando. E ciò si riflette sui costi. C’è chi propone di finanziare in maniera separata i costi per le persone anziane e per le persone giovani. Che cosa ne pensa?
«Non funziona. Sarebbe la fine della solidarietà. Vorrebbe dire che le persone anziane e malate dovrebbero arrangiarsi per risolvere i propri problemi e invece chi è giovane e sano non finanzierebbe nulla solo perché è in buona salute. La solidarietà è tutta un’altra cosa. Poi va detto che la salute non è solo una questione d’età: ci sono pure giovani con gravi problemi di salute e ci sono persone anziane in buona salute. Questo sistema esiste affinché ognuno possa affrontare i problemi di salute avendo a disposizione un sistema sanitario di qualità. Si pensi ai trattamenti per il cancro, che magari costano 300 mila franchi. Chi potrebbe permettersi di pagare una tale trattamento? Nessuno. Ebbene, grazie all’assicurazione malattie obbligatoria chi è in buona salute contribuisce affinché quella persona possa avere accesso a prestazioni di qualità. Lo ribadisco: separare giovani e anziani vorrebbe dire eliminare la solidarietà».

La preoccupa il fatto che potrebbe diventare una questione di lotta tra generazioni?
«Penso che uno scontro tra generazioni è più probabile nella previdenza vecchiaia. Lì c’è un vero e proprio effetto generazionale. Non nella sanità, dove tutti, giovani e anziani, possono a un determinato momento della loro vita aver bisogno di cure».

Lei ha ormai quasi finito il suo mandato come consigliere federale. Quale eredità lascia al suo successore alla testa del Dipartimento dell’interno?
«È un dipartimento appassionante. Direi anche che è il più bello. Perché è il solo in cui si è a diretto contatto con le preoccupazioni quotidiane della gente. Tutti hanno a che fare con le casse malati, tutti pianificano la propria pensione, tutti hanno accesso alla cultura. E mi fermo qui, ma potrei continuare. È un dipartimento interessante che tocca direttamente la vita della gente. Ma dirigerlo è anche un impegno molto importante. Perché è un dipartimento enorme, molto complesso e con interessi in gioco immensi. Al mio successore, dunque, auguro di avere molte energie e di avere anche il coraggio di prendere decisioni che non sono sempre per forza popolari».

«Amo il Ticino, nel settore della salute è stato spesso pioniere»

«Non è un segreto: adoro il Ticino». Ha esordito così, questo pomeriggio, Alain Berset, di fronte alla platea del Palazzo dei Congressi. Un incontro organizzato dal PS per parlare delle sfide del sistema sanitario, durante il quale ha però anche ribadito il suo rapporto speciale con il nostro territorio. «Ci vengo in vacanza da molto tempo, se non da sempre», ha continuato. «Come Ministro della cultura, vado ogni anno al Festival di Locarno. E in questa occasione, qui a Lugano, ho l’onore di consegnare i premi svizzeri delle arti sceniche». Il Ticino, ha aggiunto, «non è solo terra di cultura, ma anche d’innovazione. Nel settore della salute, ha spesso avuto un ruolo di pioniere. Ad esempio durante la pandemia, nell’organizzazione delle cure». Ed è proprio questo «spirito innovativo», per Berset, ciò che «ci serve per riformare il sistema sanitario». Già, ma il Ticino è anche il cantone più toccato dall’aumento dei premi. Il presidente della Confederazione non ha dimenticato questo aspetto, anzi. «Il Ticino è toccato in modo particolare. L’anno prossimo, il premio mensile medio aumenterà del 10,5%. È l’aumento più forte in Svizzera. Una pessima notizia per le economie domestiche, che soffrono già per l’aumento dei prezzi degli affitti, dei generi alimentari e dell’energia». Cattive notizie a parte, da noi sollecitato a margine dell’intervista, ha poi nuovamente ribadito il suo legame speciale con il Ticino. Il ricordo migliore, a parte il Festival del Film? «Non saprei scegliere – risponde –. Ce ne sono molti. Partirei dalle vacanze in famiglia a Vigana, a sud di Bellinzona. Perché ho dei parenti lì. Un altro bel momento che ricordo volentieri è un pranzo con l’allora collega alla Camera alta Dick Marti. Ho dei bei ricordi anche al Lido San Domenico. Ma anche durante la pandemia, sono venuto in famiglia in Ticino. La prima volta a Intragna, la seconda nei pressi di Gandria. Ma non è finita qui. Tornerò sicuramente in Ticino».
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