Presidenziali USA

«Anacronistico, ma interessante»: Biden-Trump, inizia lo show

Il sociologo Paolo Natale, tra i massimi esperti italiani di sondaggi e di comunicazione politica, spiega i motivi per cui è tuttora attuale mettere di fronte alle telecamere i due candidati alla Casa Bianca - Distacchi troppo esigui per stabilire al momento chi vincerà negli Stati chiave
Nel 2020 Joe Biden e Donald Trump si confrontarono davanti alle telecamere tre volte con regole d’ingaggio molto diverse da quelle stabilite in questa campagna elettorale. ©JIM BOURG
Dario Campione
26.06.2024 06:00

«Anacronistico» forse. Ma anche «interessante. Perché c'è pur sempre una quota considerevole di elettori statunitensi che utilizza la televisione come principale mezzo di informazione». Paolo Natale insegna Sociologia politica alla Statale di Milano ed è uno dei massimi esperti italiani di metodologia della ricerca sociale - detto in forma semplice, di sondaggi - argomento sul quale ha pubblicato, poco più di un anno fa, con Laterza, un manuale destinato sia agli studenti sia al grande pubblico.

In vista del primo dei due dibattiti presidenziali tra Joe Biden e Donald Trump, in programma domani alle 21 ad Atlanta, in Georgia (in Ticino saranno le 3 di notte, ndr) Natale spiega al CdT come e perché, nel mondo iperconnesso della Rete, il piccolo schermo possa tuttora giocare un ruolo significativo.

La cassa di risonanza della Rete

«Da tempo, critici e studiosi della comunicazione sottolineano il fatto che la televisione, per dirla con Battiato, non è più il “centro di gravità permanente” dell’informazione. Tuttavia, ciò che accade in Tv è poi in qualche modo ripreso dai social. Non solo: il messaggio televisivo è estrapolato, rilanciato e commentato online in vari modi, costruendo una sorta di interazione costante tra i vari media. Quindi - sottolinea Natale - se da una parte i broadcasting più tradizionali, Tv e radio, non sono più, in generale, i mezzi più seguiti, è altrettanto vero che restano comunque un costante punto di riferimento per i successivi commenti. Potrebbe adattarsi loro il vecchio detto latino scripta manent: rimangono nel tempo, e sono utilizzati, anche soltanto stralciandone piccoli pezzi, in vari modi, sia per contrastare sia per sottolineare singoli aspetti graditi a una o all’altra parte politica».

In un lungo commento ospitato ieri dal New York Times, l’ex segretaria di Stato Hillary Clinton, sconfitta da Trump nelle elezioni del 2016, ha spiegato che cosa sia lecito attendersi dal dibattito di domani notte e, soprattutto, perché sarà difficile andare oltre la prevedibile gazzarra tra i due sfidanti. «Come spettatori - ha scritto Hillary Clinton - dovremmo cercare di non rimanere bloccati dalla teatralità. Quando vedrete questi due uomini fianco a fianco, pensate alla vera scelta di queste elezioni. È tra il caos e la competenza». Sarebbe «una perdita di tempo cercare di confutare le argomentazioni di Trump come in un normale dibattito - ha aggiunto l’ex senatrice di New York, oggi rettrice della Queen’s University di Belfast - È quasi impossibile identificare quali siano le sue argomentazioni. Inizia con sciocchezze e poi divaga nel blaterare. E la situazione non ha fatto che peggiorare negli anni. Trump […] non riesce a mantenere un pensiero dritto. […] Può sbraitare e delirare in parte perché vuole evitare di dare risposte dirette sulle sue posizioni impopolari, come le restrizioni sull’aborto, la concessione di agevolazioni fiscali ai miliardari e la svendita del nostro pianeta alle grandi compagnie petrolifere in cambio di donazioni elettorali. Interrompe e fa il prepotente perché vuole apparire dominante e sbilanciare il suo avversario».

Una lettura, ovviamente, non del tutto disinteressata, quella proveniente da una delle più importanti esponenti del Partito democratico. Ma indicativa del clima di lacerante divisione che caratterizza da anni, ormai, gli Stati Uniti.

«Su ciò che accadrà giovedì notte ci sono due scuole di pensiero un po’ differenti tra loro - dice ancora Paolo Natale - da una parte, c’è chi insiste nel suggerire a Trump di moderare i toni della polemica, proprio per evitare che i suoi nemici, o anche gli elettori indecisi, vedano in lui di nuovo l’uomo della rivolta di Capitol Hill, il politico con la tendenza troppo esagerata all’odio nei confronti degli avversari. Dall’altra parte, c’è chi sostiene come questo atteggiamento sia il suo marchio di fabbrica, e giudica necessario che l’ex presidente continui a essere aggressivo contro l’establishment americano e i poteri forti, in modo da convincere una parte di elettorato incerto a prendere le sue difese. Ciò detto, il fatto che sia difficile immaginare un potere più forte di quello del miliardario Trump, è un’evidente contraddizione, presente tuttavia in molti Paesi. C’è stata in Italia con Berlusconi e si ripete, identica, ovunque uomini ricchi e famosi intraprendono la strada del populismo per scalare il potere, come dimostra il caso recentissimo dell’argentino Javier Milei».

Meglio l’arena del salotto

Paradossalmente, ma non troppo, è lo stesso pubblico ad attendersi uno scontro in piena regola, a volere l’arena e non certo il salotto. «Negli anni - conferma il sociologo milanese - il confronto in Tv tra i candidati si è sempre più svuotato di contenuti per diventare competizione quasi belligerante, espressione di una conflittualità permanente. Più che dichiarazioni generiche sul futuro dell’America o sulle cose che entrambi vorrebbero fare, ma che poi nessuno di loro sarà in grado di portare a termine, i telespettatori sono interessati alla comparazione delle individualità in gioco».

Due personalità, Biden e Trump, tra loro agli antipodi ma accomunate da un fattore critico: l’età. Il primo compirà 82 anni il prossimo 20 novembre, il secondo ne ha compiuti 78 due settimane fa, il 14 giugno. «Le preoccupazioni che sento anche da parte dei miei colleghi americani - dice Natale - sono relative al progressivo disamoramento dei cittadini e alla delusione crescente che a governare, in qualche modo, il mondo occidentale siano di fatto due vecchietti. L’idea che in un momento come questo, in cui il mondo sta andando un po’ a rotoli da molti punti di vista, non ci siano persone più giovani che riescano a prendere in mano la situazione è visto come un grande problema, e potrebbe penalizzare la partecipazione al voto, diventando così deleterio per la politica stessa».

L’ultima considerazione di Natale è sui sondaggi, la sua materia. «Finché il distacco tra i due candidati è così ravvicinato, il margine di errore implicito di 3 o 4 punti non permette ipotesi certe. Si è visto nelle ultime elezioni, in particolare negli swing States, gli Stati in bilico. Fare previsioni è quindi inutile. L’unica cosa che i sondaggi possono facilmente anticipare è il consenso generale, il cosiddetto voto popolare, il quale, come tutti sanno, conta sino a un certo punto. Se il voto popolare a favore dei democratici superasse quota 5 milioni, la vittoria di Biden sarebbe quasi sicura (nel 2020 fu di 7,1 milioni, ndr). Sotto questa quota, può esserci un risultato differente».