Cambiamenti sociali e crisi economica sono le questioni irrisolte del regime iraniano
«L’Iran non è facile da descrivere perché è un Paese molto complesso, grande tre volte la Francia, abitato da quasi 90 milioni di persone e attraversato da differenti posizioni e visioni politiche, sia su come gestire il potere interno sia per ciò che concerne le relazioni internazionali». Raffaele Mauriello, storico e linguista, è professore associato alla facoltà di Letteratura persiana e lingue straniere dell’Università Allameh Tabataba’i di Teheran e insegna anche nel master di Geopolitica e sicurezza globale della Sapienza di Roma. La sua lettura della nazione oggi annoverata tra i più pericolosi “nemici” dell’Occidente, una lettura basata su una osservazione lunga almeno due decenni, non ricalca gli stereotipi d’uso corrente, rinfocolati da casi quali la carcerazione della giornalista italiana Cecilia Sala. E induce sicuramente a riflessioni non scontate. A partire proprio dalla situazione politica interna.
«Questa estate è avvenuto un cambio importante ai vertici del Paese: l’insediamento del nuovo presidente della Repubblica, Masoud Pezeshkian, eletto dopo la morte improvvisa, in un incidente di elicottero di Ebrahim Rais. In Iran, il presidente è in realtà un primo ministro, dato che il Capo di Stato è la cosiddetta “guida suprema”, una leadership sia civile che religiosa. Ma l’arrivo di Pezeshkian ha segnato un vero mutamento. A un governo ultraconservatore, “principalista” secondo la definizione locale, è subentrato un governo prettamente riformista, all’interno sempre di un quadro politico determinato. Questo sta generando variazioni sia nelle politiche interne sia in quelle verso l’esterno. E non è un caso che ciò sia accaduto dopo le famose proteste seguite alla morte della giovane Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre 2022 mentre la ragazza era sotto la custodia della polizia».
La società iraniana, pure in un contesto regionale molto complesso e dinamico, a detta di Mauriello sta quindi cambiando. Anche grazie al potere di nomina che spetta al presidente, il quale può avvicendare i manager di Stato (ma non i vertici delle forze armate che, spiega sempre Mauriello, «dipendono dalla guida suprema, Ali Khamenei»).
Il caso del velo islamico
Uno degli esempi più interessanti riguarda la questione del velo, di cui molto si discute anche in Occidente. «L’attuale Parlamento, che è conservatore o principalista, ha votato da poco, e per la prima volta, una legge sul velo - racconta lo storico dell’Università Allameh Tabataba’i - Tutti sanno che in Iran il velo islamico è obbligatorio ma, in verità, e questa è una cosa sorprendente, dalla rivoluzione del 1979 a oggi non c’è mai stata alcuna norma che lo imponesse. A spiegarla così, sembra una cosa assurda. Ma è vera. Per la prima volta, quindi, il Parlamento ha approvato una legge formale che deve essere applicata in maniera sperimentale per un certo numero di anni. E tuttavia, questa legge, che soltanto il governo può far eseguire gestendo direttamente le forze di polizia, non viene attuata. Il governo di Pezeshkian non lo sta facendo. Di fronte a un elemento simbolico della questione sociale, diciamo di libertà sociale, si avverte una minore pressione. Non era scontato, perché in Iran la sfera privata, nello spazio pubblico, spesso non è più tale».
La correlazione diretta tra le proteste per la morte di Mahsa Amini e la mano meno dura del potere interno non è, però, l’unica spiegazione possibile di quanto sta accadendo. «Frequento l’Iran da oltre un ventennio, e negli ultimi 16-17 anni ne ho trascorsi qui almeno 13 o 14, di questi 11 in modo consecutivo - dice Mauriello - L’Iran è un Paese nel quale i cambiamenti sociali sono continui, così come i riflessi a livello politico. Grandi proteste ci sono state nel 2009 quando Mahmud Ahmadinejad vinse le presidenziali contro Mir-Hosein Musavi. Anche allora un conservatore contro un riformista. Furono elezioni molto complicate, i due candidati finirono vicini e Ahmadinejad si dichiarò vincitore scatenando la reazione di milioni di persone che scesero in piazza. Io credo che il problema risieda nel fatto che, a fronte di una crisi economica molto forte, i cambiamenti sociali non si riflettono ancora pienamente in quelli politici, soprattutto per la volontà dei “principalisti” di continuare a controllare la società. L’attuale presidente, a differenza del predecessore che aveva gestito la situazione soprattutto in termini di maggiore vigilanza e sorveglianza, tenta di farsi un po’ più portatore di istanze sociali che comunque già esistono nel Paese, di diminuire la tensione».
Rivoluzione e aspettative
A cinquant’anni quasi dalla rivoluzione khomeinista, è possibile pensare che le aspettative degli iraniani fossero diverse? Pesa il mancato percorso di laicizzazione dello Stato e il fatto che comunque l’Iran continui a essere, di fatto, una teocrazia? «Si tratta di una questione che va compresa in modo corretto - risponde Raffaele Mauriello - l’Iran si definisce Repubblica islamica, ma non è il solo a farlo. Anche il Pakistan si dichiara Repubblica islamica, lo stesso fa l’Afghanistan e, probabilmente, farà in futuro la Siria. La Turchia non si dichiara tale, ma nella pratica il governo di Erdogan agisce in maniera simile. Questo Paese, che è musulmano, ha fatto una rivoluzione definita islamica che, in realtà, era una rivoluzione contro una dittatura, una rivoluzione di natura sociale, se non proprio socialista, con molte caratteristiche diverse tra cui c’era l’islam. La Persia, va ricordato, era governata da una delle monarchie più antiche al mondo. Da questo punto di vista, c’è stata un’apertura molto ampia dello spettro politico. Dopodiché, è vero che ai molti cambiamenti sociali non sono corrisposti altrettanti cambiamenti politico-istituzionali. A un certo punto, il sistema politico è stato rallentato e adesso non dico che sia fermo, ma quasi. Il Paese ha bisogno di importanti e ampie riforme: economiche e di gestione della sfera politica. E c’è un gap, un buco, che si è creato tra una popolazione che continua a andare avanti su molti aspetti e una classe dirigente che ha difficoltà a reggere questi cambiamenti a livello sociale. Anche per questo esplodono le grandi proteste. L’alternanza tra principalisti e riformisti può servire a rendere più laica una società che in parte già lo è. Certo, quello iraniano non è il laicismo che conosciamo in Europa, ma stiamo parlando di storie diverse».
Il ritorno di Donald Trump
Il maggiore problema dell’Iran resta, comunque, la sua crisi economica. La crisi di un Paese giovane, potenzialmente molto ricco, ma fortemente condizionato dalle sanzioni internazionali. Un Paese, come sottolinea Mauriello, incapace sin qui di mettere mano ad alcune necessarie riforme.
«L’Iran è un Paese ricchissimo di risorse energetiche, quindi con grandi capacità potenziali. Ma, sicuramente le sanzioni non aiutano, così come il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Oggi c’è anche una forte inflazione, che ha colpito duro. Qualcosa a cui gli iraniani non erano abituati: soltanto 20 anni fa, anche se già sotto sanzioni, Teheran aveva una crescita economica a volte del 6 - 8%».
Pure il continuo stato di guerra nel quadrante mediorientale non aiuta. Per quanto nel Paese la percezione dello scontro con Israele, a detta di Mauriello, non sia così pressante. «Mentre, in Israele, l’Iran è una questione fondamentale, nel senso che c’è una demonizzazione continua e Teheran è vista dell’establishment conservatore di Tel Aviv come il nemico, in Iran la situazione è diversa. In questo momento, il problema principale, l’attenzione primaria dell’Iran è rivolta all’arrivo di Trump e alle relazioni problematiche con gli USA, che poi si riflettono in un rapporto complesso con l’Occidente e con l’Europa. Per questo, credo che ci sia la volontà di andare avanti, di firmare un accordo sul nucleare e di raggiungere un qualche tipo di compromesso, ad minima o magari più ampio, con gli Stati Uniti».