Democrazia, libertà, populismi: se in America si torna a Tocqueville

Che cosa sta succedendo negli Stati Uniti dopo il ritorno di Donald Trump alla presidenza? Davvero la democrazia liberale è a rischio nel Paese in cui è stata “inventata”?
Alcuni grandi media, storicamente mai teneri con il tycoon - dal New York Times al Washington Post, da Le Monde a El País - non lasciano passare giorno senza lanciare allarmi preoccupati. Ancora ieri, l’inglese Guardian ha parlato di «orbánizzazione dell’America». Con il tecno-miliardario Elon Musk al suo fianco, «Trump si è mosso con una velocità sorprendente per licenziare i critici, punire i media, premiare gli alleati, sventrare il governo federale, sfruttare l’immunità presidenziale e testare i limiti della sua autorità. Molte delle sue azioni sono incostituzionali e illegali. E con il Congresso impotente, solo i Tribunali federali le hanno rallentate - ha scritto il Guardian, ricordando pure - il giro di vite spietato sull’immigrazione clandestina, l’approccio intransigente alla legge e all’ordine, l’epurazione dell’ideologia di genere e della wokeness dalle scuole, l’erosione della libertà accademica, dell’indipendenza della magistratura e della libertà di stampa».
«Stanno copiando il percorso intrapreso da altri aspiranti dittatori come Viktor Orbán - ha detto sempre ieri Chris Murphy, senatore democratico del Connecticut - C’è un passaggio verso i media controllati dallo Stato. Ci sono un sistema giudiziario e forze dell’ordine che paiono pronte a dare priorità al perseguimento degli oppositori politici. C’è la presa di potere da parte dell’esecutivo e del suo leader incontrastato».
Pareri opposti
Ovviamente, il presidente e i repubblicani la pensano diversamente. Rivendicano, anzi, i propri atti come l’espressione della libertà più ampia: di scelta, d’espressione, d’iniziativa. Giovedì scorso, ad esempio, Trump ha firmato un ordine esecutivo rivolto a smantellare il dipartimento dell’Istruzione. Lo ha fatto in una cerimonia inusuale, attorniato da scolari che innalzavano le cartellette con la decisione. Un’idea non del tutto nuova, in verità. Gli sforzi dei repubblicani in tal senso risalgono Infatti agli anni ’80 del secolo scorso. Ma la spinta è diventata via via sempre più forte, poiché gli attivisti conservatori hanno preso di mira le politiche educative più inclusive.
Gli alleati del tycoon
Democrazia in pericolo, quindi, o democrazia semplicemente indirizzata verso scelte che non piacciono al mondo progressista? Sara Gentile insegna Scienza politica e Analisi del linguaggio politico al Centre de recherches politiques de Sciences Po (CEVIPOF) di Parigi, dove svolge prevalentemente le sue ricerche su alcuni temi: i populismi, la crisi della forma democratica, la comunicazione e i rituali e i linguaggi della leadership. «I due principali alleati di Donald Trump, ovvero il vice JD Vance e il miliardario Elon Musk, indicano in modo plastico quanto sia decisivo, oggi, negli USA, il potere del denaro e della grande finanza. Sia Vance sia Musk, in occasioni diverse, hanno però sempre insistito su un altro elemento, e cioè la coincidenza tra democrazia e possibilità di esprimere le proprie idee nella massima libertà - dice Sara Gentile al CdT - Soprattutto nel pensiero di Vance, c’è un evidente elemento di contraffazione e di falsificazione: la libertà tanto invocata a garanzia del sistema democratico è, semplicemente, la libertà di scegliere l’utile per sé stessi. Mentre l’idea di libertà che si è affermata, nel tempo, nei sistemi democratici è legata all’attenuazione delle diseguaglianze».
Al di là di ogni giudizio di merito, secondo la professoressa Gentile la seconda amministrazione Trump sta chiaramente «estremizzando il concetto di libertà, fino a farla coincidere con due princìpi, due valori simbolo della modernità: l’individualismo sfrenato e il consumismo. Come io consumo le merci secondo i miei stretti bisogni individuali, così opero scelte che riflettono il mio specifico interesse individuale».
Volgendo lo sguardo agli Stati Uniti di oggi, continua Sara Gentile, «vengono in mente il vecchissimo ma sempreverde Alexis de Tocqueville e alcune sue pagine della Democrazia in America, profetiche e di una lucidità impressionante. Giovanissimo, appena trentenne, descrive nel 1835 la meraviglia, lo stupore per la ventata di libertà respirata a contatto con la società americana, una giovane democrazia con la stampa libera e i partiti privi della zavorra delle monarchie degli ancien régime europei. Qualcosa ancora del tutto sconosciuto in Europa. Ma, a un certo punto, cito a memoria, dice: facciamo attenzione. Questa democrazia che avanza così promettente, con la libera stampa, il gioco dei partiti e tutto ciò che ne consegue, potrebbe trasformarsi in qualcosa di diverso. Basta poco: che qualcuno prometta al popolo americano che non lo disturberà nel suo quieto vivere e nei suoi affari personali; che prometta prosperità e i benefici che un mercato libero può produrre; che prometta una vita agiata senza scossoni e senza tragedie. Basterà che questo avvenga, e un qualunque capopopolo armato solo di protervia potrà riscuotere il consenso del popolo americano e prendere il potere».
Ecco, allora, spiegato - almeno in parte, e secondo la scienza politica - quanto sta accadendo. Negli Stati Uniti, e non solo. Nelle democrazie mature, «sta prevalendo il cosiddetto “populismo patrimoniale” - conclude Sara Gentile - molto diverso dal populismo delle origini, quello di fine ’800, che partiva dal basso per rimanere legato alla valorizzazione del popolo oppresso, ad esempio, nel caso russo, dall’autocrazia zarista. I populismi moderni promanano dall’alto, dalle élite. Sono legati a un blocco sociale, a un gruppo di potenti che non vogliono perdere i propri privilegi. E che una volta al comando, inevitabilmente, tendono a sfociare nell’autoritarismo».
Un «diluvio» che ha provocato scossoni «un po’ in tutto il mondo: dall’Argentina al Brasile, all’Ungheria. E che, nel caso di Donald Trump, segnato dall’alleanza con Elon Musk, coniuga la ricchezza con la tecnocrazia».
Dalla Corte Suprema un monito inatteso alla Casa Bianca
Nemmeno John Roberts, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti, è potuto restare indifferente di fronte all’ennesimo affondo di Donald Trump contro la magistratura. Quando la Casa Bianca, quattro giorni fa, ha chiesto l’impeachment del giudice federale che aveva bloccato la deportazione di centinaia di presunti componenti di bande venezuelane, Roberts ha dettato una dichiarazione, tanto chiara nei contenuti quanto ferma nei toni: «Per più di due secoli, è stato stabilito che l’impeachment non è una risposta appropriata al disaccordo riguardante una decisione giudiziaria. A tale scopo esiste il normale processo di appello».
Il presidente della Corte Suprema, in carica dal 2005, è un repubblicano ed è stato nominato da George Bush figlio. Il suo stop alle richieste di Trump assume quindi un significato particolarmente importante e sottolinea come, anche all’interno del massimo organismo giurisdizionale degli Stati Uniti, lo scontro in atto fra i poteri esecutivo e giudiziario sia vissuto con estrema preoccupazione.
Mercoledì scorso Trump aveva attaccato il giudice distrettuale capo a Washington DC, James Boasberg, per aver emesso un ordine restrittivo temporaneo relativo alle deportazioni stabilite dalla Casa Bianca ai sensi dell’Alien Enemies Act, una legge del 1798 che conferisce al presidente il potere di agire senza un giusto processo. «Questo giudice, come molti dei giudici corrotti davanti ai quali sono costretto a comparire, dovrebbe essere messo sotto accusa!!», ha scritto Trump sul suo social medium, etichettando Boasberg come un «giudice pazzo della sinistra radicale» e un «piantagrane».
L’attacco contro Boasberg è stato l’ultimo di una serie contro magistrati giudicanti che hanno contrastato, con le loro sentenze, i vari ordini esecutivi firmati dal tycoon.