«Donald Trump? Una vittoria attesa, ma non con queste proporzioni»
Marco Mariano, associato di Storia dell’America del Nord all’Università di Torino e direttore del Centro di studi americani e transatlantici «Piero Bairati», da anni si concentra sull’analisi delle politiche estere delle amministrazioni di Washington. Il suo ultimo lavoro, pubblicato quest’anno da Einaudi, si intitola Tropici americani. L’impero degli Stati Uniti in America Latina nel Novecento.
Professor Mariani, partirei subito dall’analisi del voto di martedì. Che cosa è successo? Perché Donald Trump è tornato alla Casa Bianca?
«È successo ciò che, solo in parte, ci si aspettava. La
vittoria di Trump era infatti prevista, in base a una serie di indicatori
emersi nelle ultime settimane. Non era invece attesa, direi, la proporzione di
questa vittoria, sfuggita forse non a tutti ma alla gran parte dei sondaggi e
dei sondaggisti. Le cause, naturalmente, non sono ancora del tutto chiare. Ci
servono più dati per capire i motivi di questo risultato».
Alcune indicazioni, tuttavia, già emergono.
«Sì, certo. E anche in modo abbastanza chiaro. Una è,
diciamo così, regionale e geografica: siamo di fronte a una vittoria che
interessa buona parte del territorio nazionale. Trump avanza, rispetto a
quattro anni fa, in più del 90% delle contee. Quindi non soltanto nelle sue
roccheforti geografiche ma, appunto, su base nazionale. Un secondo dato su cui
abbiamo qualche possibilità di ragionare è il voto giovanile maschile, che è
andato a Trump più che nelle precedenti elezioni. Il leader repubblicano è ancora
in lieve svantaggio in questo segmento parziale, ma molto meno che in passato.
Poi c’è la novità, anche questa in parte attesa, del voto latino, sul quale
Trump ha fatto significativi progressi, più tra gli uomini che tra le donne.
Aggiungerei un ultimo aspetto».
Quale?
«Il fatto che il voto delle donne è andato sì in
maggioranza a Kamala Harris, ma in modo meno netto di quanto si potesse
immaginare».
Ci sono stati anche il collasso del voto democratico e
una minore affluenza alle urne. Nel 2020 Joe Biden ottenne 81,3 milioni di voti
popolari, Kamala Harris si fermerà attorno a 71 milioni. Quattro anni fa, Trump
superò i 74 milioni di voti, quest’anno si attesterà attorno a 75 milioni.
«Questo è indubbiamente un dato di grande importanza,
spiegabile facendo alcune ipotesi. Una è che ovunque nel mondo, e non soltanto
negli Stati Uniti, gli incumbent, coloro che sono in carica, si trovano sempre
in grossa difficoltà al momento del voto. Su questo, si innestano specificità
americane: ad esempio, il fatto che la presidenza Biden abbia valorizzato poco
e male i risultati ottenuti in economia, a cominciare dalla lotta
all’inflazione, da cui gli USA sono usciti senza creare recessione. Un risultato
importante che non è stato evidentemente percepito come tale da buona parte
dello stesso elettorato democratico, dato che l’inflazione è calata ma i prezzi
sono aumentati».
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Forse Trump è pure riuscito a dettare l’agenda politica;
le sue parole chiave - immigrazione, criminalità - sono state al centro della
campagna elettorale».
«Io credo che i Democratici abbiano soprattutto pagato
l’errore di Biden di intestardirsi in una ricandidatura poi evaporata, messa da
parte all’ultimissimo momento, alla venticinquesima ora. Il passaggio di
testimone in corsa è stato problematico, nonostante un iniziale successo a
livello di sondaggi e di mobilitazione a favore di Harris. Poi, certo, il tema
immigrazione è stato importante. Trump è riuscito su questo a mobilitare
energie, e non solo della propria base: una parte non piccola di indipendenti
lo ha votato proprio perché il tema dell’immigrazione è stato percepito come
un’emergenza. D’altronde, sul tema l’amministrazione Biden ha avuto molti meno
successi da mettere da mettere sul tavolo. È stata efficace, come detto, in
tema di lotta all’inflazione, di investimenti pubblici, di creazione di posti
di lavoro. Ma il record, lo dico tra virgolette, di passaggi al confine Sud con
il Messico non è stato positivo. E, tra l’altro, è stato un tema su cui è
Harris si è impegnata da vicepresidente senza troppo successo».
Come potrà, il Partito Democratico, recuperare questi 10
milioni di voti persi? Riportare, cioè, alle urne chi si è astenuto?
«La mia impressione è che per i Democratici sia
necessario uscire, diciamo, da una bolla autoreferenziale che li ha portati a
una crescente disconnessione con parti importanti del Paese. E non parlo solo
di geografia: parlo di società. C’è una grossa difficoltà del partito a
mobilitare energie e a organizzare interessi. Era riuscito a farlo Barack Obama
alla sua maniera, ma è un metodo poco replicabile, perché fondato su una
leadership particolarmente carismatica. Oggi il Partito Democratico ha una serie
di problemi, a partire dalla forte eterogeneità della sua base: è molto meno
coeso e molto meno unito del Partito Repubblicano dal punto di vista dei valori
di riferimento. Si prospetta, per i Dem, una lunga marcia durante la quale
dovranno fare scelte importanti. Capire, innanzitutto, se essere
sostanzialmente il partito che difende le istituzioni e la democrazia di fronte
a una vera o presunta minaccia autoritaria, oppure se tornare a essere il
partito che dà risposte a quella grande parte di americani impauriti e timorosi
di fronte alla situazione economica e agli effetti della globalizzazione».
Professore, volevo chiederle qualcosa sul ruolo di Elon
Musk. L’impressione è che il patron della Tesla sia stato un catalizzatore di
voti, un personaggio sorprendente che si è rivelato sorprendentemente utile
alla campagna elettorale di Trump. Qual è la sua opinione?
«Sicuramente Musk è una figura mediaticamente, oltre che
economicamente e tecnologicamente, importante. Non l’unico della galassia della
new economy che si è riallineato in favore del candidato repubblicano, forse il
più conosciuto, il più celebre. E il più influente. Ora, prendiamo sul serio l’appeal
mediatico di una figura come Musk. Ma dobbiamo anche considerare come non sia l’unico,
tra i super-ricchi, ad aver fatto questa scelta, dettata sostanzialmente da una
logica tutto sommato abbastanza prevedibile e comprensibile: la ricetta fiscale
di Trump, una tassazione sostanzialmente regressiva. La sintonia ideologica c’è,
ma c’è anche, molto banalmente, una forte convergenza di interessi».
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Le faccio un’ultima domanda: Trump ha vinto due volte
contro candidate donne. Pensa che sia stato un errore da parte dei Democratici
opporre una donna a Trump? In fondo, il leader repubblicano è stato messo nelle
condizioni di sfruttare al meglio la sua capacità comunicativa, poggiata su un linguaggio
aggressivo e sessista. Un marchio di fabbrica che il suo elettorato in fondo
chiede, aspetta qualche volta persino con ansia.
«Sì e no. Trump aveva vinto contro Hillary Clinton con
un significativo divario nel voto popolare. Stavolta è stato diverso. Le due
sconfitte delle candidate democratiche sono quindi diverse. Sicuramente, la
questione di genere ha mobilitato quest’anno meno di quanto i democratici si
aspettassero. La differenza a favore dei Democratici è stata meno ampia che in
passato. C’è poi un altro elemento: la questione dell’aborto. È stata una carta
vincente in alcuni referendum negli Stati solidamente repubblicani, penso ad
esempio al Kansas, dove i cittadini hanno votato a favore di una protezione
legale della cosiddetta libertà di scegliere, “pro choice”. E poi, però, quel voto
non si è ripetuto nelle elezioni presidenziali. Gli Stati solidamente
repubblicani hanno preso una posizione pro aborto ma sono rimasti trumpiani».
Quindi era semplicemente sbagliata la candidata? Kamala Harris
non era la persona giusta?
«Non so se fosse la persona giusta, era tuttavia una
candidata inevitabile, nel momento in cui l’uscita di scena tardiva di Joe
Biden ha posto il partito in una condizione molto difficile da gestire. Sarebbe
stato particolarmente complicato non scegliere Harris, così come sarebbe stato poco
realistico mettere in moto un meccanismo di primarie o di mini-primarie a tre
mesi dal voto. La sua domanda resta lecita, ma in simili circostanze non è
forse giusto gettare la croce sulla vicepresidente».