Presidenziali USA

«Donald Trump? Una vittoria attesa, ma non con queste proporzioni»

L'analisi di Marco Mariano, professore associato di Storia dell'America del Nord all'Università di Torino - Musk fattore chiave ma ha scelto Trump per via delle tasse
Donald Trump ha conquistato il voto di molti giovani maschi e dei latinos. ©YURI KOCHETKOV
Dario Campione
06.11.2024 22:00

Marco Mariano, associato di Storia dell’America del Nord all’Università di Torino e direttore del Centro di studi americani e transatlantici «Piero Bairati», da anni si concentra sull’analisi delle politiche estere delle amministrazioni di Washington. Il suo ultimo lavoro, pubblicato quest’anno da Einaudi, si intitola Tropici americani. L’impero degli Stati Uniti in America Latina nel Novecento.

Professor Mariani, partirei subito dall’analisi del voto di martedì. Che cosa è successo? Perché Donald Trump è tornato alla Casa Bianca?
«È successo ciò che, solo in parte, ci si aspettava. La vittoria di Trump era infatti prevista, in base a una serie di indicatori emersi nelle ultime settimane. Non era invece attesa, direi, la proporzione di questa vittoria, sfuggita forse non a tutti ma alla gran parte dei sondaggi e dei sondaggisti. Le cause, naturalmente, non sono ancora del tutto chiare. Ci servono più dati per capire i motivi di questo risultato».

Alcune indicazioni, tuttavia, già emergono.
«Sì, certo. E anche in modo abbastanza chiaro. Una è, diciamo così, regionale e geografica: siamo di fronte a una vittoria che interessa buona parte del territorio nazionale. Trump avanza, rispetto a quattro anni fa, in più del 90% delle contee. Quindi non soltanto nelle sue roccheforti geografiche ma, appunto, su base nazionale. Un secondo dato su cui abbiamo qualche possibilità di ragionare è il voto giovanile maschile, che è andato a Trump più che nelle precedenti elezioni. Il leader repubblicano è ancora in lieve svantaggio in questo segmento parziale, ma molto meno che in passato. Poi c’è la novità, anche questa in parte attesa, del voto latino, sul quale Trump ha fatto significativi progressi, più tra gli uomini che tra le donne. Aggiungerei un ultimo aspetto».

Quale?
«Il fatto che il voto delle donne è andato sì in maggioranza a Kamala Harris, ma in modo meno netto di quanto si potesse immaginare».

Ci sono stati anche il collasso del voto democratico e una minore affluenza alle urne. Nel 2020 Joe Biden ottenne 81,3 milioni di voti popolari, Kamala Harris si fermerà attorno a 71 milioni. Quattro anni fa, Trump superò i 74 milioni di voti, quest’anno si attesterà attorno a 75 milioni.
«Questo è indubbiamente un dato di grande importanza, spiegabile facendo alcune ipotesi. Una è che ovunque nel mondo, e non soltanto negli Stati Uniti, gli incumbent, coloro che sono in carica, si trovano sempre in grossa difficoltà al momento del voto. Su questo, si innestano specificità americane: ad esempio, il fatto che la presidenza Biden abbia valorizzato poco e male i risultati ottenuti in economia, a cominciare dalla lotta all’inflazione, da cui gli USA sono usciti senza creare recessione. Un risultato importante che non è stato evidentemente percepito come tale da buona parte dello stesso elettorato democratico, dato che l’inflazione è calata ma i prezzi sono aumentati».

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Forse Trump è pure riuscito a dettare l’agenda politica; le sue parole chiave - immigrazione, criminalità - sono state al centro della campagna elettorale».
«Io credo che i Democratici abbiano soprattutto pagato l’errore di Biden di intestardirsi in una ricandidatura poi evaporata, messa da parte all’ultimissimo momento, alla venticinquesima ora. Il passaggio di testimone in corsa è stato problematico, nonostante un iniziale successo a livello di sondaggi e di mobilitazione a favore di Harris. Poi, certo, il tema immigrazione è stato importante. Trump è riuscito su questo a mobilitare energie, e non solo della propria base: una parte non piccola di indipendenti lo ha votato proprio perché il tema dell’immigrazione è stato percepito come un’emergenza. D’altronde, sul tema l’amministrazione Biden ha avuto molti meno successi da mettere da mettere sul tavolo. È stata efficace, come detto, in tema di lotta all’inflazione, di investimenti pubblici, di creazione di posti di lavoro. Ma il record, lo dico tra virgolette, di passaggi al confine Sud con il Messico non è stato positivo. E, tra l’altro, è stato un tema su cui è Harris si è impegnata da vicepresidente senza troppo successo».

Come potrà, il Partito Democratico, recuperare questi 10 milioni di voti persi? Riportare, cioè, alle urne chi si è astenuto? 
«La mia impressione è che per i Democratici sia necessario uscire, diciamo, da una bolla autoreferenziale che li ha portati a una crescente disconnessione con parti importanti del Paese. E non parlo solo di geografia: parlo di società. C’è una grossa difficoltà del partito a mobilitare energie e a organizzare interessi. Era riuscito a farlo Barack Obama alla sua maniera, ma è un metodo poco replicabile, perché fondato su una leadership particolarmente carismatica. Oggi il Partito Democratico ha una serie di problemi, a partire dalla forte eterogeneità della sua base: è molto meno coeso e molto meno unito del Partito Repubblicano dal punto di vista dei valori di riferimento. Si prospetta, per i Dem, una lunga marcia durante la quale dovranno fare scelte importanti. Capire, innanzitutto, se essere sostanzialmente il partito che difende le istituzioni e la democrazia di fronte a una vera o presunta minaccia autoritaria, oppure se tornare a essere il partito che dà risposte a quella grande parte di americani impauriti e timorosi di fronte alla situazione economica e agli effetti della globalizzazione».

Professore, volevo chiederle qualcosa sul ruolo di Elon Musk. L’impressione è che il patron della Tesla sia stato un catalizzatore di voti, un personaggio sorprendente che si è rivelato sorprendentemente utile alla campagna elettorale di Trump. Qual è la sua opinione?
«Sicuramente Musk è una figura mediaticamente, oltre che economicamente e tecnologicamente, importante. Non l’unico della galassia della new economy che si è riallineato in favore del candidato repubblicano, forse il più conosciuto, il più celebre. E il più influente. Ora, prendiamo sul serio l’appeal mediatico di una figura come Musk. Ma dobbiamo anche considerare come non sia l’unico, tra i super-ricchi, ad aver fatto questa scelta, dettata sostanzialmente da una logica tutto sommato abbastanza prevedibile e comprensibile: la ricetta fiscale di Trump, una tassazione sostanzialmente regressiva. La sintonia ideologica c’è, ma c’è anche, molto banalmente, una forte convergenza di interessi».

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Le faccio un’ultima domanda: Trump ha vinto due volte contro candidate donne. Pensa che sia stato un errore da parte dei Democratici opporre una donna a Trump? In fondo, il leader repubblicano è stato messo nelle condizioni di sfruttare al meglio la sua capacità comunicativa, poggiata su un linguaggio aggressivo e sessista. Un marchio di fabbrica che il suo elettorato in fondo chiede, aspetta qualche volta persino con ansia.
«Sì e no. Trump aveva vinto contro Hillary Clinton con un significativo divario nel voto popolare. Stavolta è stato diverso. Le due sconfitte delle candidate democratiche sono quindi diverse. Sicuramente, la questione di genere ha mobilitato quest’anno meno di quanto i democratici si aspettassero. La differenza a favore dei Democratici è stata meno ampia che in passato. C’è poi un altro elemento: la questione dell’aborto. È stata una carta vincente in alcuni referendum negli Stati solidamente repubblicani, penso ad esempio al Kansas, dove i cittadini hanno votato a favore di una protezione legale della cosiddetta libertà di scegliere, “pro choice”. E poi, però, quel voto non si è ripetuto nelle elezioni presidenziali. Gli Stati solidamente repubblicani hanno preso una posizione pro aborto ma sono rimasti trumpiani».

Quindi era semplicemente sbagliata la candidata? Kamala Harris non era la persona giusta?
«Non so se fosse la persona giusta, era tuttavia una candidata inevitabile, nel momento in cui l’uscita di scena tardiva di Joe Biden ha posto il partito in una condizione molto difficile da gestire. Sarebbe stato particolarmente complicato non scegliere Harris, così come sarebbe stato poco realistico mettere in moto un meccanismo di primarie o di mini-primarie a tre mesi dal voto. La sua domanda resta lecita, ma in simili circostanze non è forse giusto gettare la croce sulla vicepresidente».