Ecco chi è Stephen Miran, l'architetto dei dazi di Donald Trump

Stephen Miran non si scompone. Nemmeno di fronte ai titoli di alcune testate e al cosiddetto «rischio di recessione». Sconosciuto ai più, questo economista di 41 anni è l'architetto della politica economica di Donald Trump, come scrive fra gli altri il quotidiano francese La Tribune. Un architetto che, è notizia recente, si è appena guadagnato la conferma del Senato alla testa dei consiglieri economici della Casa Bianca (parliamo del Council of Economic Advisers, noto come CEA). È stato proprio Miran a teorizzare e sponsorizzare la guerra dei dazi o commerciale che dir si voglia. Una guerra da muovere ai Paesi che lamentano i maggiori deficit commerciali con gli Stati Uniti: Canada, Cina e Messico in testa.
Miran è figlio delle università più prestigiose del Paese e, dopo gli studi, ha intrapreso una carriera nella finanza privata. Si è laureato dalla Boston University nel 2005 per poi conseguire un dottorato in economia ad Harvard nel 2010. Quindi, come detto, è stato analista finanziario e gestore di portafoglio in svariati fondi di investimento: Lily Pond Capital Management, Fidelity Investments e Sovarnum Capital LP. Tra aprile 2020 e gennaio 2021, verso la fine del primo mandato di Trump, invece, ha lavorato per la prima volta al Tesoro degli Stati Uniti come consulente di politica economica. È poi tornato nel mondo del private equity, presso Hudson Bay Capital. Ma il giovane lupo, come scrive sempre La Tribune, ha comunque tenuto d'occhio la politica economica del Paese come ricercatore associato presso il Manhattan Institute, un think tank conservatore di New York.
Miran è sempre stato un sostenitore di Trump. Lo scorso novembre, tuttavia, si è imposto (definitivamente) all'attenzione dell'attuale presidente degli Stati Uniti grazie a una nota previsionale scritta per il fondo Hudson Bay Capital. Il titolo? A User's Guide to Restructuring the Global Trading System. Si tratta, manco a dirlo, della matrice di quella che potremmo definire dottrina Miran. Il cui obiettivo consiste nel risolvere il paradosso strutturale dell'economia americana. Riformuliamo: gli Stati Uniti hanno una moneta forte, il dollaro, sopravvalutato rispetto alle altre valute perché è il punto di riferimento globale. Al contempo, la forza del dollaro sta danneggiando l'industria manifatturiera del Paese. Non solo, la stessa forza del biglietto verde, secondo l'economista, favorisce le importazioni e penalizza le esportazioni di prodotti americani, accentuando il deficit commerciale degli Stati Uniti.
«La profonda insoddisfazione nei confronti dell'attuale ordine economico è radicata nella persistente sopravvalutazione del dollaro e nelle condizioni commerciali asimmetriche» ha affermato, non a caso, il nuovo responsabile del CEA nella sua nota. «Questa sopravvalutazione rende le esportazioni americane meno competitive, le importazioni americane meno costose e ostacola l'industria manifatturiera americana». Di qui, la soluzione auspicata da Miran: aumentare, anche drasticamente, i dazi doganali. Parliamo di un +60%, se necessario, con la Cina e del 10%, almeno, con gli altri Paesi. Aumenti, questi, finalizzati a ottenere vantaggi diretti o, se preferite, nuove e sostanziali entrate fiscali per l'amministrazione statunitense, da reinvestire in particolare nel settore manifatturiero.
La politica di Miran, tuttavia, comporta non pochi rischi. Uno su tutti: l'impennata dell'inflazione, al netto delle promesse (elettorali) di Donald Trump che, da parte sua, ha più volte detto di voler ripristinare il potere d'acquisto delle famiglie americane. Secondo la citata dottrina Miran, questa conseguenza in ogni caso non durerebbe a lungo. Lo stesso Miran ha ribadito: «I dazi doganali forniscono entrate e, se sono compensati da aggiustamenti valutari, hanno effetti negativi minimi, inflazionistici e non. I dazi saranno in definitiva finanziati dalla nazione tassata». In questo senso, l'economista ha ricordato la primissima guerra commerciale contro la Cina, condotta dall'amministrazione Trump fra il 2018 e il 2019. All'epoca, spiega sempre La Tribune, Washington tassò migliaia di importazioni cinesi. Importazioni valutate, allora, 370 miliardi di dollari. L'obiettivo? Fare pressione sulla Cina per il suo sospetto furto di proprietà intellettuale statunitense. Prigioniera della sua dipendenza dal mercato a stelle e strisce, Pechino rispose consentendo alla sua valuta nazionale, lo yuan, di deprezzarsi del 13% rispetto al dollaro. Con il risultato che, alla fine, le importazioni cinesi non furono così care per gli americani. Tre quarti dei dazi americani, in sostanza, furono compensati dal citato deprezzamento dello yuan.
Il piano di Miran, per contro, non si limita alla raccolta di nuove entrate fiscali. Per rilanciare le esportazioni manufatturiere americane sarebbe necessaria una svalutazione del dollaro. Valuta, però, forte per natura poiché funge da riserva per molte economie straniere. «Dopo una serie di tariffe punitive, i partner commerciali come l'Europa e la Cina diventeranno più ricettivi a qualche forma di accordo valutario in cambio di una riduzione delle tariffe» ha spiegato Miran nella sua nota. In altre parole, l'idea dell'economista è quella di concludere un «accordo di Mar-a-Lago», sulla falsariga dell'Accordo del Plaza del 1985 tra Stati Uniti, Giappone, Germania Ovest, Francia e Regno Unito. Questo accordo dimezzò il valore del dollaro, riducendo così il deficit commerciale degli Stati Uniti. D'accordo, ma come fare a quel punto con le perdite finanziarie legate a un potenziale deprezzamento del dollaro? Miran, a tal proposito, ha spiegato che queste perdite potrebbero essere riequilibrate vendendo «titoli del Tesoro USA a 100 anni» ai Paesi detentori di dollari, un meccanismo che soddisferebbe le esigenze di finanziamento del debito statunitense. Il debito degli Stati Uniti, attualmente, è colossale: parliamo (quasi) del 100% del PIL, ovvero di circa 34.600 miliardi di dollari.
Strategie, queste, criticate e non poco dagli analisti e dagli esperti. Da un lato, c'è chi ha sottolineato che sono proprio i dazi a contribuire all'apprezzamento del dollaro e, dall'altro, non è affatto detto che l'inflazione sarà temporanea. Anche perché i dazi potrebbero spingere alcuni Paesi a esportare meno negli Stati Uniti, con entrate fiscali inferiori rispetto al previsto. Non solo, appare quantomeno complicato pensare a un accordo come quello del Plaza del 1985. Banalmente, perché i tempi sono cambiati.