«I dazi potrebbero colpire anche le aziende biotech»

In Ticino la ricerca di base in biomedicina è nota, anche nel mondo. Attorno al polo bellinzonese stanno crescendo aziende biofarmaceutiche in fase clinica, essenziali per portare sul mercato le scoperte scientifiche. Lo spin-off dell’IRB Humabs, oggi Vir Biotechnology, è stato precursore in questo campo. Abbiamo incontrato la CEO, di passaggio nella capitale.
Marianne De Backer, Vir Biotechnoloy, tra le altre cose, si occupa anche di immunoterapia dei tumori con protocolli innovativi. Cosa ha portato a questo cambiamento di rotta rispetto alle terapie contro le malattie infettive?
«L’anno scorso abbiamo modificato il nostro obiettivo strategico per cercare non solo di sviluppare farmaci per le malattie infettive, ma anche farmaci che aiutino il sistema immunitario a combattere con maggiore efficacia altre patologie, e non solo quelle infettive. Abbiamo infatti programmi anche per il cancro in cui, se si riesce a potenziare l’attività dei linfociti T (cellule fondamentali del nostro sistema difensivo, ndr) contro le cellule tumorali, la risposta alla malattia diventa molto più efficace. L’anno scorso abbiamo avviato una collaborazione con Sanofi, prendendo in licenza tre prodotti in fase clinica - i cosiddetti dual masked T-cell engagers - e anche una piattaforma per uso esclusivo nell’intero campo dell’oncologia e delle malattie infettive. Inoltre, abbiamo portato 50 ricercatori di Sanofi alla Vir Biotechnology di San Francisco. L’idea è di combinare la nostra piattaforma per la scoperta e lo sviluppo di anticorpi con una tecnologia denominata, appunto, di “mascheramento” che potrebbe portare a cure immunoterapeutiche più selettive e sicure, riducendo la tossicità e migliorando l’efficacia nel trattamento dei tumori».

È prevista una collaborazione anche con lo IOR (Istituto oncologico di ricerca)?
«Abbiamo una collaborazione con l’IRB (Istituto di ricerca in biomedicina) da molto tempo, tant’è vero che Humabs è nata proprio come suo spin-off. Con lo IOR, invece, stiamo discutendo una collaborazione poiché vorremmo chiaramente approfittare della vicinanza dei loro gruppi di ricerca oncologica. Non è ancora stato stabilito nulla, ma ha certamente un senso logico».
All’inaugurazione dei vostri nuovi laboratori nel Business Center Bellinzona, il 14 marzo di sei anni fa, l’allora CEO George Scangos aveva spiegato che la casa madre aveva deciso di mantenere in Ticino la sede di Vir/Humabs (e dunque di non trasferirla a San Francisco). Il tempo vi ha dato ragione?
«Prima di diventare CEO di Vir Biotechnology nel 2023, ho trascorso più di 30 anni in grandi aziende farmaceutiche come J&J e Bayer, dove ho lavorato all’acquisizione di diverse società. Una delle cose che ho imparato durante la mia carriera è che molte acquisizioni falliscono perché tutto viene integrato - persone, tecnologie ecc. - e l’innovazione tende a “perdersi” nei meandri aziendali. Nel mio precedente ruolo in Bayer ho acquisito tre società, ma le ho tenute “a debita distanza”, in modo da garantire loro la propria indipendenza affinché non cambiasse nulla dal punto di vista geografico e che i talenti restassero. Riguardo a Humabs (che dal 2025 opera sotto il marchio unico di Vir Biotechnology), quindi, credo che sia stata una decisione davvero intelligente mantenere un gruppo altamente produttivo e indipendente a Bellinzona e assicurarsi che tutto il suo valore non andasse perduto. Le cifre parlano chiaro: quando Humabs è stata acquisita nel 2017, aveva 19 persone. Ora ne conta più di 50 e gli spazi dei laboratori sono cresciuti fino a 7 mila mq. Vediamo che i gruppi di ricerca sono composti da persone di grande talento e grazie a questi possiamo attirarne altri da tutta Europa. Bellinzona è un bel posto per vivere, certo, ma c’è anche un gran bell’ecosistema, tra centri di ricerca accademici (IRB e IOR) e l’accesso a una solida rete ospedaliera. Di conseguenza il turnover che osserviamo è molto basso. Ma a mio avviso il successo di un’azienda biotech si misura nella sua capacità di scoprire farmaci che rispondano ai bisogni dei pazienti. Nei nostri laboratori ce ne sono due che sono “nati” qui e che sono già sul mercato, uno per l’Ebola e uno per la Covid-19. In questi giorni abbiamo anche iniziato uno studio clinico di Fase 3 per l’epatite Delta e l’anticorpo che stiamo utilizzando in questo regime è ancora una volta una scoperta fatta a Bellinzona e ulteriormente ottimizzata in collaborazione con il nostro gruppo a San Francisco».
Nella vostra «pipeline» si legge anche la sigla HIV…
«Uno dei nostri progetti in effetti riguarda un anticorpo che stiamo cercando per la cura dell’HIV. Naturalmente l’obiettivo è molto ambizioso e la concorrenza è forte. Ci sono molti ricercatori che stanno lavorando su questo, ma il nostro gruppo è estremamente entusiasta di un anticorpo che abbiamo “in casa” e che sta usando il nostro strumento di intelligenza artificiale denominata dAIsY per ottimizzarlo e vedere se riusciamo ad arrivare a un profilo che potrebbe fare la differenza».
Le terapie con anticorpi sono notoriamente più care e incidono sui costi sanitari in generale, vale ancora la pena investire in questo settore?
«Certo, il costo delle terapie con gli anticorpi e gli attivatori di linfociti T è certamente elevato. Ma tutto dipende con che cosa li si confronta. Per esempio, se si potesse usare un attivatore di linfociti T, che è fondamentalmente un pezzo di anticorpo, i linfociti T si attivano e possono combattere un tumore. Questo è un modo per ottenere un risultato. Se invece si devono prelevare i linfociti T dal paziente, modificarli e reinserirli (come si fa con le terapie CAR-T), è un modo ancora più costoso per cercare di ottenere lo stesso risultato. Quindi penso che ci sia uno spettro di approcci con diversi costi. Naturalmente, le piccole molecole tendono a essere più economiche, mentre i farmaci biologici sono più costosi. Quando lo scorso settembre abbiamo firmato l’accordo con Sanofi, non c’era molto interesse per l’immuno-oncologia, perché c’era un po’ di saturazione nel mercato e nulla era più in grado di creare entusiasmo. Ora la situazione è completamente cambiata. Negli ultimi mesi si è capito che gli attivatori di linfociti T hanno una capacità unica per combattere il cancro e se li si maschera, è potenzialmente possibile renderli molto più sicuri».
Vir Biotechnology è quotata alla Borsa Nasdaq. Come sta andando la società, visto l’andamento in calo del prezzo del titolo?
«L’azienda sta andando molto bene, direi. Quando abbiamo diffuso i dati relativi alla ricerca sul cancro, il titolo è salito circa del 60%. Ma il settore biotech in generale sta soffrendo delle incertezze congiunturali, specie in questa fase, tra annunci di dazi e i possibili cambiamenti in seno alla Food and Drug Administration (FDA). I dazi in particolare potrebbero colpire in modo importante le aziende attive nel biotech nel mondo. Ma ci sono segnali incoraggianti, come le fusioni oppure il ritorno in Borsa di alcune società. Quindi in una prospettiva di lungo termine la vedo molto bene per il settore biotech e le scienze della vita in generale».