L'«eccezionalismo» USA scricchiola?

Da qualche settimana un numero crescente di analisti finanziari sta mettendo in dubbio il tanto acclamato «eccezionalismo» degli Stati Uniti. Prima di loro ci avevano già pensato i mercati, con l’inversione a U che i principali listini a Wall Street hanno fatto a metà febbraio scorso: nonostante abbiano recuperato un po’ di terreno, le Borse USA rimangono ancora sotto i livelli di inizio anno.
Anche il famoso «privilegio esorbitante» del dollaro USA, quale valuta di riserva mondiale e la più utilizzata per i pagamenti internazionali (quasi la metà di tutte quelli effettuati via SWIFT sono in dollari), viene messo in questione dagli analisti - ma non si parla ancora di «dedollarizzazione», un processo che rimane ancora lungo e forse nemmeno realizzabile, o auspicabile.
Nel frattempo, il valore del greenback in termini reali (cioè rapportato al paniere di principali valute e aggiustato per l’inflazione) è salito ai livelli più alti dai primi anni Settanta, quando si è posto fine al sistema delle parità fisse stabilite dagli accordi di Bretton Woods.
Margine per «riequilibrare»
Le dirompenti - e talvolta controverse - politiche economiche dell’Amministrazione Trump segneranno quindi la fine dell’eccezionalismo statunitense? Solo il tempo ce lo potrà dire, ma è sempre più diffusa l’idea che sia iniziato un processo di «riequilibrio» dei mercati globali, come sostiene anche Daniel Murray, Deputy CIO & Global Head of Research di EFG Asset Management: «Il riequilibrio sta avvenendo a livello politico e, chiaramente, a livello economico. Più gli Stati Uniti si “dissoceranno” dal resto del mondo, più sarà difficile far valere in futuro il proprio peso economico e geopolitico. Ci vorranno decenni, certo. Nel frattempo, in Europa il maxi-piano tedesco di investimenti infrastrutturali e industriali approvato la scorsa settimana avrà chiaramente un impatto positivo sulla crescita del Paese, ma anche della zona euro nel suo complesso. Non dimentichiamo poi il gruppo dei Paesi Brics, che si sta allargando ed è sempre più unito e credo che questo sviluppo proseguirà. Tutto ciò rende gli Stati Uniti un po’ meno rilevanti, ma non scompariranno».
A guardare le valutazioni dei titoli azionari statunitensi, in particolare quelle dei titoli tecnologici, si intuisce come ci sia ancora un margine di riequilibrio, almeno sui mercati finanziari. Attualmente i titoli USA hanno infatti un «premio» di circa il 50% su quelli dei principali mercati internazionali. Inoltre, la quota delle azioni USA nell’indice di riferimento globale MSCI World rimane attorno al 70%, «ma è possibile che fra cinque o più anni non sarà ancora così», afferma Murray. «Tuttavia - continua - anche se la quota dovesse scendere, ad esempio al 60%, significherebbe che gli altri mercati stanno crescendo bene, ma gli USA resterebbero comunque di gran lunga la fetta più considerevole. A ogni modo, non credo che si possa fare a meno di avere un’esposizione sui mercati nordamericani. Gli USA sono e resteranno a lungo la prima economia del mondo dove operano - e opereranno - aziende straordinarie».
L’annuncio di lunedì scorso da parte del colosso sudcoreano dell’automotive Hyundai di voler investire 21 miliardi di dollari negli Stati Uniti, di cui 5,8 miliardi per un nuovo impianto siderurgico in Louisiana, rafforza l’idea dell’attrattività del mercato statunitense.
Prima di Hyundai anche TSMC (il produttore taiwanese di semiconduttori, primo al mondo) e la giapponese SoftBank hanno annunciato piani d’investimento miliardari negli Stati Uniti.
Crescita e tecnologie avanzate
Il processo di riequilibrio sarà un percorso verosimilmente lungo, tortuoso e pieno di «buche», è quindi molto difficile fare previsioni sul lungo periodo. Ma non per gli analisti di Vanguard, il secondo più importante gestore al mondo di mutual funds ed ETF, conosciuti per il loro approccio conservativo e sguardo, appunto, di lungo termine. «In generale, non vediamo le condizioni per un declino della forza economica degli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda l’innovazione, sebbene un futuro più multipolare per l’economia globale sia uno scenario ragionevole nel lungo periodo», afferma al CdT Josh Hirt, economista senior nel gruppo di Strategia d’investimento di Vanguard.
La spinta dell’innovazione
«Sebbene gli scenari commerciali a breve termine e il potenziale riorientamento siano fattori da prendere in considerazione - continua - riteniamo che le condizioni interne degli Stati Uniti, come la demografia, i deficit e l’innovazione, avranno un ruolo decisamente più rilevante nel determinare come gli USA navigheranno nel lungo periodo e il loro ruolo nell’economia globale».
Ed è proprio sull’innovazione che volge lo sguardo prospettico l’economista di Vanguard, secondo cui un fattore chiave «sarà come gli Stati Uniti emergeranno dal prossimo conflitto interno tra l’innovazione nell’Intelligenza artificiale (IA) e i deficit determinati dalla demografia. Se l’IA prevarrà, la crescita accelererà poiché la tecnologia trasformerà la produzione economica e la società, proprio come l’elettricità fece all’inizio del XX secolo. Il suo impatto potrebbe essere maggiore di quello del personal computer e di Internet. Se l’innovazione nell’IA non dovesse soddisfare le nostre aspettative, i deficit domineranno, dato l’aumento della spesa pubblica non finanziata legata all’invecchiamento della popolazione. La crescita potrebbe quindi rimanere al di sotto dei tassi deludenti registrati dalla crisi finanziaria globale del 2007-2009». Ricordiamo che in quel periodo, il PIL degli USA registrò addirittura una decrescita attorno al 2%.
Solo «timori» di recessione
Tornando al breve-medio termine, non è passata inosservata l’affermazione del segretario al Tesoro Scott Bessent, che ha recentemente affermato che «non ci sono garanzie che non ci sarà una recessione» negli Stati Uniti. Anche il presidente Donald Trump ha dichiarato di non escludere una recessione e che gli americani dovrebbero aspettarsi «un periodo di transizione» nell’economia.
Ma per Roberto Mandorino, responsabile investimenti Svizzera presso J.P. Morgan Private Bank a Zurigo, ci troviamo di fronte piuttosto al «timore di una recessione, in quanto le debolezze riguardano principalmente i “soft data” (informazioni o indicatori qualitativi che si basano su sondaggi e aspettative anziché su dati concreti e misurabili, ndr). Negli ultimi 15 anni, i mercati finanziari hanno sperimentato quattro diverse crisi di crescita, con un calo medio dello S&P 500 del 17% circa», afferma al CdT Mandorino. «Prevediamo che i mercati chiuderanno comunque l’anno in rialzo, trainati da una crescita degli utili superiore alla media. La nostra ipotesi di base per la crescita del PIL statunitense rimane intorno al 2-2,25%, sostenuta da “hard data” resilienti; tuttavia, i recenti indicatori che misurano le attese aumentano il rischio che la crescita del PIL scenda leggermente al di sotto del 2%».