Quelle emissioni che le banche non vogliono più rendicontare
Il mese scorso, stando a un servizio di Reuters, alcune grandi banche internazionali (Morgan Stanley, Barclays, Bank of America, Citigroup, HSBC, BNP Paribas, NatWest e Standard Chartered) hanno fatto trapelare l’intenzione di escludere due terzi delle «carbon emissions», legate alle loro attività nei mercati finanziari, dalla loro «contabilità delle emissioni di carbonio», dopo mesi di disaccordo sulla questione. Se confermata, la notizia fa pensare a un passo indietro dell’industria finanziaria dall’obiettivo «zero emissioni nette». Anche la finanza, al pari di altri settori, è chiamata ad assumersi maggiori responsabilità per le emissioni generate dalle proprie attività.
Come le aziende, infatti, anche la finanza si è impegnata a contribuire all’obiettivo «net zero» (zero emissioni nette) entro il 2050. Il metodo più comunemente adottato è quello della contabilizzazione delle emissioni generate (indirettamente) dalle attività di finanziamento delle imprese, per esempio con il collocamento di tagli obbligazionari e azionari, secondo gli standard stabiliti dalla Partnership for Carbon Accounting Financials (PCAF), l’associazione di banche che mira ad armonizzare la cosiddetta «carbon accounting» nel settore finanziario.
Tre livelli di responsabilità
«È una discussione fondamentale: l’industria finanziaria è responsabile di tutto ciò che fanno le aziende inquinanti che essa finanzia, oppure no? Direi che la risposta è sì e no», afferma al CdT Sabine Döbeli, CEO dell’associazione Swiss Sustainable Finance (SSF). «Dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione la prospettiva dello “Scope 3” stabilito dal GHG Protocol Corporate Standard», precisa l’esperta.
Il protocollo GHG (GreenHouse Gas, ndr) è un insieme di norme per la contabilizzazione dei gas a effetto serra introdotto all’inizio degli anni Duemila che stabilisce tre categorie di emissioni: quelle dirette di «proprietà» o sotto il controllo di un’azienda;le emissioni indirette «Scope 2»; e infine le «Scope 3», che sono una conseguenza delle attività commerciali dell’azienda e che si verificano nella catena di approvvigionamento.
«Per le società di servizi finanziari – continua Döbeli – le emissioni Scope 3 sono principalmente quelle causate dalle attività di investimento e finanziamento e in questa prospettiva c’è in effetti un conteggio multiplo, poiché si calcola che una banca è responsabile per queste emissioni in quanto investe in aziende che le producono, ma allo stesso tempo, queste imprese (e i rispettivi Paesi in cui operano) calcolano anch’esse le proprie emissioni dirette. Lo Scope 3 intende quindi mettere in evidenza che chiunque investe o finanzia un’azienda che abbia una supply chain ha anche una certa responsabilità per le relative emissioni».
Inquinanti «agevolati»
Il tema è complesso e trova origine anche nell’annosa questione delle cosiddette «emissioni agevolate» (facilitated emissions), ovvero le emissioni inquinanti che si verificano quando le imprese ricevono un finanziamento o altra agevolazione che consente loro di continuare le loro attività inquinanti senza compiere sforzi significativi per ridurre il loro impatto ambientale.
«A mio avviso, sarebbe più corretto che le istituzioni finanziarie rimanessero con una contabilizzazione integrale, al 100%», afferma Döbeli. «Tuttavia, è importante differenziare tra le possibilità che una banca ha di influenzare le emissioni dirette e indirette. In questo senso, la responsabilità della banca dovrebbe essere considerata minore di quella dell’azienda che causa direttamente le emissioni».
All’esperta dello SSF chiediamo anche delle responsabilità «a monte», ovvero degli azionisti delle società. «I soci – spiega Sabine Döbeli – hanno una responsabilità per ciò che fanno le loro aziende e possono influenzarle. Lo stesso vale per gli investitori che comprano e vendono azioni in Borsa e quindi possiedono le aziende in modo “indiretto”. Ovviamente per questi è un po’ più difficile influenzare le aziende rispetto a, per esempio, un azionista-investitore di private equity che è molto più vicino alla società in cui ha investito. In entrambi i casi, tuttavia, si può influenzare le scelte aziendali esercitando il proprio diritto di voto, oppure con ciò che viene chiamato «engagement» - impegno - ovvero un dialogo diretto con il management e chiedere a esso, per esempio, di sviluppare strategie climatiche credibili».
Rendimento nel lungo periodo
Ma non c’è il rischio di sacrificare i profitti aziendali (almeno nel breve termine) se, come azionista, si «invita» la propria azienda a investire in modelli produttivi più sostenibili? Risponde Döbeli: «Credo che le aziende non rinuncino a rendimenti se adottano principi di sostenibilità. È una questione di orizzonte temporale. Se si guarda all’esperienza degli investimenti sostenibili attraverso il rendimento storico nell’ultimo decennio, i minori guadagni sono avvenuti sempre nel breve termine, mentre il perseguimento di criteri di sostenibilità si è dimostrato essere il percorso giusto nel lungo termine e molti investitori sono effettivamente convinti che l’integrazione di tali criteri riduca i loro rischi o migliori il profilo di rendimento. Direi che il modo migliore per gli azionisti-investitori per contribuire a un cambiamento nel mondo sia quindi rimanere investiti e piuttosto influenzare la strategia delle imprese, tramite il diritto di voto e impegnarsi così per ottenere piani credibili di transizione».