Farmaceutica, la minaccia dei dazi: «Berna trovi un’intesa con Trump»

«La speranza è che il canale di dialogo non si chiuda». La minaccia dei dazi preoccupa, e non poco, anche l’industria farmaceutica, che potrebbe essere il prossimo obiettivo del presidente americano Donald Trump. Gli occhi sono tutti puntati al 2 aprile, nella cosiddetta «Giornata della Liberazione dell’America», quando dovrebbe entrare in vigore tutta una serie di barriere economiche all’ingresso che Trump definisce «reciproche», in quanto, nella sua visione, equivalenti a quelle imposte dagli altri Paesi nei confronti degli Stati Uniti.
E sulla «lista nera» è finita anche la Svizzera, avendo un saldo attivo negli scambi con Washington, come confermato qualche settimana fa dalla direttrice della Segreteria di Stato dell’economia (SECO), Helene Budliger Artieda. Per questo, spiega Piero Poli, presidente di Farma Industria Ticino e CEO di RivoPharm, «Noi confidiamo moltissimo in un intervento della politica svizzera, in modo che si possa arrivare a un accordo con gli Stati Uniti». La Svizzera, ricorda Poli, è un grande esportatore di farmaci, «anche perché il mercato interno non sarebbe in grado di assorbire tutto quanto viene prodotto qui». E gli Stati Uniti rappresentano uno dei nostri principali partner commerciali. «La Svizzera è inserita nella lista dei Paesi non amici per quanto riguarda la bilancia commerciale verso gli USA. Ma già durante la prima amministrazione Trump erano stati inseriti alcuni dazi, per fortuna poi alleggeriti». E la speranza, per il settore farmaceutico, è che si possa andare in questa direzione, «con un accordo di libero scambio che possa essere ottimale per tutti».
«Il mercato americano rappresenta circa un terzo del nostro fatturato», gli fa eco Riccardo Braglia, presidente del gruppo farmaceutico Helsinn. Anche Braglia confida nel fatto che la Svizzera possa essere risparmiata dalla «guerra dei dazi». «Spero - dice - che i rapporti storici tra Svizzera e Stati Uniti facciano in modo che la Confederazione non venga inclusa nell’attacco che l’amministrazione Trump sta lanciando all’Europa». Detto ciò, «noi abbiamo fatto alcune proiezioni, ma bisognerà capire bene dove impatteranno i dazi, se sul prodotto finito, sulle materie semi-lavorate o sulle materie prime. In più, noi, come molte altre aziende, abbiamo una piccola parte di produzione negli Stati Uniti, un’altra parte in Svizzera, ma anche in Irlanda, quindi potremmo essere molto danneggiati, a dipendenza di dove l’amministrazione Trump vorrà colpire».
Le conseguenze
L’applicazione di dazi al 25% sui farmaci, secondo gli analisti avrebbe un impatto enorme sulla farmaceutica globale, con 76,6 miliardi di dollari di costi per le aziende. «A pesare molto, ora, è soprattutto il clima di incertezza attuale. Il fatto di non sapere esattamente se i dazi arriveranno, quando e di quanto saranno. Se fossero dazi al 25%, per Helsinn si tradurrebbe in un impatto su un terzo del nostro fatturato. Più un altro 40% per la parte chimica, che fa capo all’altra nostra società Has», rileva Braglia. Insomma, «sarebbe molto pesante, tanto a livello di utile, quanto di mancanza di liquidità e di tasse».
A pagarne le spese, però, sarebbe anche la popolazione americana. «Il mercato del farmaco degli USA è molto particolare, con prezzi tendenzialmente liberi», spiega Poli. «Il primo impatto, quindi, sarebbe sui cittadini statunitensi, che vedrebbero aumentare il costo dei prodotti». In più, ricorda, «gli Stati Uniti coprono una fetta del mercato importante per le nostre industrie farmaceutiche, soprattutto per due tipologie di farmaci: quelli innovativi e quelli generici. Ebbene, ci sono alcuni prodotti specifici - che rappresentano peraltro una buona fetta del nostro fatturato - che è difficile andare a sostituire di colpo. Mi riferisco ad esempio agli anticorpi monoclonali, a trattamenti immunologici molto particolari come quelli per curare epatite, HIV e malattie rare, ma anche farmaci oncologici e cardiovascolari, oltre a quelli per il diabete».
Il rischio di un effetto domino
Insomma, la Svizzera indirizza verso gli USA tutta una serie di prodotti essenziali, che rischiano - se bloccati - di creare un vuoto nell’offerta di medicamenti. «L’impatto per la popolazione americana sarebbe molto rilevante», evidenzia Poli. Nonostante questo, «non possiamo non essere preoccupati per l’impatto delle decisioni di Trump, perché saremmo chiamati ad assorbire costi molto elevati». In generale, osserva il presidente di Farma Industria Ticino, «le guerre commerciali non fanno bene a nessuno perché la fattura più salata la paga comunque il consumatore finale». Non solo. «I dazi statunitensi e la probabile risposta da parte della Commissione europea non farebbero altro che aumentare i costi da ambo le parti». In un effetto domino che non risparmierebbe nemmeno la Svizzera: «Se diminuisce il potere d’acquisto di uno dei nostri partner commerciali principali, ossia l’Europa, sarebbe inevitabile un contraccolpo anche per l’industria farmaceutica elvetica. E anche quella ticinese, che esporta gran parte dei suoi prodotti proprio verso il mercato UE, oltre che negli Stati Uniti».
L’ipotesi trasferimento
Pensare di spostare la produzione oltreoceano, però, è molto complicato. «Richiede parecchio tempo - dice Poli - sia a livello regolatorio che per quanto riguarda le autorizzazioni per la produzione. Il mercato farmaceutico è infatti molto più lento di altri. Non si può quindi pensare di spostare un sito produttivo dall’oggi al domani e vendere il prodotto senza aver fatto prima una serie di attività che sono prodromiche in primo luogo alla sicurezza del paziente». Secondo il presidente di Farma Industria Ticino, portare avanti un’operazione simile richiederebbe anni di lavoro: «Partendo da zero, supereremmo certamente il mandato dell’attuale presidente prima di veder lanciato sul mercato americano un prodotto». Discorso diverso, invece, per le aziende più grosse, che hanno già alcune attività sul territorio statunitense: «In quel caso, le aziende potrebbero optare per implementare l’attività produttiva all’estero. Per le realtà più piccole, come quelle ticinesi, invece sarebbe senz’altro più complesso». Helsinn, come detto, ha già una filiale americana. «Il vero problema - spiega però Braglia - è che gli USA hanno perso una grossa fetta di fabbricazione farmaceutica e chimica perché negli anni scorsi moltissime aziende hanno spostato la produzione in Europa: chi in Italia, chi in Svizzera e chi in Irlanda. Per rifare un impianto servirebbero almeno cinque anni di lavoro per via di tutte le autorizzazioni necessarie e, non da ultimo, per il reclutamento di manodopera. Insomma, significherebbe poterlo sfruttare solo con l’arrivo del prossimo presidente, il quale nel frattempo potrebbe decidere di cambiare le regole del gioco».