«I giovani chiedono ciò che il regime non potrà mai concedere»
«Siamo sicuramente di fronte a un movimento di protesta nazionale, trasversale e generazionale, guidato da una leadership giovane, con una forte componente femminile. Un movimento che invoca un cambiamento in direzione della laicità e della libertà». Pejman Abdolmohammadi, professore associato di Storia e politica del Medio Oriente all’Università di Trento, descrive al Corriere del Ticino in termini chiari il senso delle proteste che da oltre 70 giorni stanno scuotendo l’Iran. Ogni sera, le città grandi e piccole del Paese scendono in piazza. Lo fanno da quando, il 13 settembre scorso, la giovane Mahsa Amini venne arrestata (e poi uccisa in carcere) dalla cosiddetta «polizia morale» per non aver indossato correttamente il velo e aver violato, quindi, il codice d’abbigliamento islamico.
«Lo scontro tra classe dirigente e movimento di protesta è radicale. Gli iraniani chiedono cambiamenti che difficilmente potranno essere accolti dalla Repubblica islamica, in quanto ne mettono in discussione i presupposti - spiega Abdolmohammadi - Stiamo parlando di libertà politica, nel senso della libertà di scelta e di espressione, della libertà individuale; dei diritti civili; e, soprattutto, della laicità dello Stato, vale a dire della separazione della religione dalla politica».
Una sorta di «controrivoluzione» che, se attuata, metterebbe a repentaglio «l’esistenza stessa dello Stato islamico. Questo spiega anche perché il movimento di protesta non sembra essere interessato a un dialogo con il mondo riformista, considerato del tutto simile, e talvolta anche peggiore, della élite religiosa al potere». Insomma: «o vince uno o vince l’altro». O prevale il desiderio di cambiare l’Iran o si prosegue con la teocrazia sciita. Una terza opzione non appare possibile.
«La situazione - dice ancora il docente trentino - è autenticamente esplosiva e potrebbe avere conseguenze enormi. Siamo di fronte alla prima società laica del Medio Oriente che non accetta più l’islam politico. Un fattore di rischio per altri regimi autoritari come l’Arabia Saudita o il Qatar, e per i Paesi governati da sistemi semi-autoritari come la Turchia di Erdogan. Nazioni che avrebbero molto da temere se i giovani iraniani avessero successo: da Teheran potrebbe infatti salire una vera onda di cambiamento».
Come sempre accade, l’impatto delle proteste delle giovani e dei giovani persiani sulle società occidentali è stato forte. Moltissime donne (ma anche tanti uomini), hanno scelto di ripetere pubblicamente il gesto di ribellione dei movimenti di piazza, tagliarsi cioè un ciuffo di capelli in segno di solidarietà con chi è costretto a nascondere la propria capigliatura sotto il velo. Tuttavia, la battaglia condotta con enorme risolutezza nelle strade iraniane non ha smosso, come forse avrebbe dovuto e potuto fare, i Governi dell’Occidente, «tuttora troppo indulgenti verso l’élite della Repubblica islamica. Vero è che stavolta c’è attenzione - dice ancora Pejman Abdolmohammadi - ma le Nazioni Unite e una buona parte dei Paesi del cosiddetto mondo libero stanno lasciando soli questi giovani coraggiosissimi. La cosa aumenta certo il valore delle proteste, ma espone gli stessi manifestanti a una repressione ancora più forte. La Repubblica islamica è in difficoltà, ma non farà passi indietro».