Musica

I Quincy Jones della nostra vita

Morto all'età di 91 anni, Jones, come tutti i produttori discografici, ha vissuto e vivrà attraverso i suoi artisti, da Michael Jackson in giù, ma la sua importanza pop va ben al di là di un elenco sterminato e wikipedistico di canzoni e collaborazioni
© EPA/STR
Stefano Olivari
04.11.2024 17:00

Quincy Jones è morto, alla bella età di 91 anni e nella sua bellissima villa di Bel Air. Come tutti i produttori discografici ha vissuto e vivrà attraverso i suoi artisti, da Michael Jackson in giù, ma l’importanza pop di Quincy Jones va ben al di là di un elenco sterminato e wikipedistico di canzoni e collaborazioni: perché lui è stato ovunque, in mondi diversissimi, e in tutti è stato credibile al di là del pippobaudiano, o se vogliamo cecchettiano, «Ti ho inventato io». Fra l’altro lui si è inventato davvero da solo, nonostante la vita gli avesse servito cattive carte.

Amici

Il luogo comune che vede nel produttore un musicista fallito si adatta soltanto parzialmente a Quincy Jones, che in realtà non è mai stato un fallito, né artisticamente né finanziariamente anche se ai tempi dell’orchestra jazz qualche problema lo ha avuto: è stato infatti fra i primi a capire l’importanza dei cataloghi e della musica del passato, acquistando i diritti su migliaia di canzoni ben prima dell’era dello streaming. Strategia imprenditoriale alla Michael Jackson, viene da dire, pensando all’operazione Jackson-Beatles. Certo è che Jones è sempre stato oscurato dalla fama delle persone che frequentava, e del resto a 14 anni prese lezioni di piano da Ray Charles (che poco dopo lo avrebbe iniziato all’eroina, da cui però Jones sarebbe riuscito a uscire in tempo), all’università di Seattle ebbe come compagno di corso Clint Eastwood, arrivato a New York come polistrumentista divenne subito amicissimo di Miles Davis e Dizzy Gillespie. Quando iniziò con gli arrangiamenti fu scelto da Frank Sinatra, nel periodo delle colonne sonore lo cercò Spielberg. E con chi si accompagnava nel periodo dell’attivismo per cause globali, contro la fame in Africa o per la cancellazione del debito dei Paesi poveri? Con Bono, ovviamente. Come Gianni Minà, solo che dei protagonisti faceva parte anche lui. Insomma, ovunque ci siano stati musica e showbusiness negli ultimi 70 anni Quincy Jones è stato presente. Certo nel suo cuore c’è sempre stato il jazz: avrebbe voluto essere Count Basie, ma con Count Basie ha soltanto lavorato.

«We Are The World»

Quincy Jones è stato compositore, arrangiatore, produttore, strumentista, imprenditore. In almeno uno di questi ruoli ha collaborato con Louis Armstrong, Tony Bennett, Aretha Franklin, Ella Fitzgerald, Little Richard, Donna Summer… ma tutti, e ribadiamo tutti, quelli che hanno cercato di sfondare negli Stati Uniti sono passati da lui almeno per un consiglio. È per questo che nel 1985 soltanto Quincy Jones avrebbe potuto mettere insieme, per l’operazione We Are the World, personalità tanto diverse, ego ipertrofici come quelli di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Tina Turner, Paul Simon, Stevie Wonder, eccetera, oltre ovviamente a Michael Jackson e Lionel Richie che materialmente scrissero la canzone che avrebbe dovuto rappresentare la risposta a Band Aid e a Do they know it’s Christmas?. Il risultato di USA for Africa fu strepitoso: 20 milioni di copie vendute, contro le circa 12 dei britannici, che ne fanno l’ottavo singolo più venduto di tutti i tempi in una classifica che rimarrà immutabile visto che lo streaming ha annacquato tutto.

Jackson

Anche in We are the world c’è un po’ della maledizione di Quincy Jones, quella di essere nell’immaginario popolare associato spesso a Michael Jackson, con un rango inferiore. E del resto fu proprio Jones a coinvolgerlo nell’operazione, visto che ai tempi i loro rapporti erano ottimi. Una collaborazione iniziata con Off the Wall, nel 1979, il primo grande successo del Jackson solista, proseguita con Thriller, nel 1982, cioè l’album più venduto di tutti i tempi, e finita con Bad, nel 1987. Poi un muro di freddezza, per i soliti motivi per cui l’artista si ribella al produttore, e un riavvicinamento nella fase finale della vita del re del pop, ma non al punto di lavorare di nuovo insieme. Alla sua morte, nel 2009, Jones lo definì «Un fratellino» (ma ai bei tempi lo chiamava «puzzone», anche se non in senso dispregiativo visto che era uno scherzo fra di loro), prima di entrare in cause milionarie con gli eredi di Jackson e con la Sony per l’utilizzo delle loro canzoni in contesti non musicali (un po’ quello che, con le debite proporzioni, è avvenuto fra Mogol e gli eredi di Battisti). In comune Jackson e Jones non avevano la predestinazione: il primo fu quasi costruito a tavolino, in una famiglia votata all’inseguimento del successo musicale, il secondo era figlio di un falegname che non riusciva a sfamare i figli (nella sua autobiografia Jones ha raccontato che la nonna gli cucinava topi fritti) e di una donna malata, che presto era scomparsa in un ospedale psichiatrico. Per entrambi la musica come fuga: per Jackson dalla famiglia e dall’adolescenza perduta, per Jones dalla povertà. Uniti per sempre da tante cose, ma soprattutto da Thriller e dalle mille storie che lo accompagnano, prima fra tutte che Quincy Jones volesse eliminare Billie Jean dalle 9 canzoni scelte fra le 30 ‘finaliste’. Storia vera, perché il produttore trovava poco efficace l’inizio, che invece era la cosa che eccitava Jackson. Quincy Jones aveva spesso ragione, ma questa volta no.

Un afro-americano tra i «bianchi»

Nella sua vita la questione razziale è stata importante, ma più dal lato dei «neri» che da quello dei «bianchi». Quando lui, afro-americano, iniziò ad affermarsi nella musica mainstream e nell’establishment dello spettacolo era già da anni un grosso nome del jazz, uno che ce l’aveva fatta lavorando con «bianchi» e «neri» senza nemmeno autocommiserarsi con quella retorica del ghetto che nel suo caso sarebbe anche stata fondata. Non solo aveva successo nel mondo dei «bianchi» ma quasi tutte le donne della sua vita sono state «bianche», dalle mogli agli amori celebri, su tutti quello con Nastassja Kinski, per arrivare alle leggende metropolitane (Ivanka Trump). Una situazione che diverse volte negli anni ha portato a pseudo-dissing con musicisti afro-americani, famoso quello con Tupac Shakur, che fra l’altro era legato a Kidada, una dei suoi sette figli. In realtà Jones era inattaccabile da questo lato, visto il suo impegno per l’Africa e per qualsiasi iniziativa potesse dare una chance ai giovani afro-americani. Certo viveva a Bel Air, come il celeberrimo Willy, cioè Will Smith, del Principe di Bel Air. Jones non soltanto fu l’autore delle musiche, ma anche il produttore, risultando quindi decisivo nel lancio della carriera di Will Smith. Ma davvero chiunque ci venga in mente fra musica e cinema è separato da Quincy Jones da non più di due gradi.

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