L'analisi

Il linguaggio di Donald Trump che cambia le regole della diplomazia: «Una volgarità mai vista»

L’ex ambasciatore svizzero a Pechino, Bernardino Regazzoni: «In Asia, ogni eccesso squalifica chi lo utilizza e mai si sognerebbero di rispondere con la stessa moneta a un linguaggio simile»
Il linguaggio di Donald Trump è sempre più aggressivo e politicamente scorretto. ©KENT NISHIMURA / POOL
Dario Campione
10.04.2025 17:30

Una telefonata di 25 minuti da Berna. Argomentazioni solide. E posizioni ferme. Donald Trump, stando alla ricostruzione pubblicata questa mattina dal Washington Post, si sarebbe convinto del passo indietro (momentaneo) sui dazi anche grazie ai ragionamenti pacati ma insistenti della presidente della Confederazione, Karin Keller Sutter. La quale avrebbe spiegato al tycoon l’irragionevolezza e, soprattutto, la pericolosità della politica protezionistica portata avanti quasi con foga dall’amministrazione americana.

Incontrando oggi la stampa, il ministro elvetico dell’Economia, Guy Parmelin, ha precisato che la Svizzera, al momento, non sta comunque «negoziando alcunché». I contatti avuti negli scorsi giorni con il Governo USA, compresa la telefonata di Karin Keller-Sutter a Trump, sono stati piuttosto «l’occasione per tentare di capire che cosa voglia il presidente degli Stati Uniti da noi e per illustrare la nostra posizione». L’occasione, cioè, per «spiegare l’importanza degli investimenti» rossocrociati negli Stati Uniti, «la forte presenza di imprese elvetiche in tutti gli Stati USA, i posti di lavoro creati, il ruolo svolto dalle ditte svizzere nella formazione dei giovani».

Moral suasion, si direbbe con una formula forse un po’ abusata. Sicuramente, un modo di affrontare il problema molto lontano dai toni e dai modi usati dallo stesso Trump martedì scorso a una cena di raccolta fondi del Partito Repubblicano. L’immagine del bacio sul fondoschiena ha fatto rapidamente il giro del mondo e ha aperto molti interrogativi sull’uso spregiudicato del linguaggio da parte di chi detiene un potere così grande.

«Siamo di fronte a una situazione del tutto inedita - commenta al Corriere del Ticino Bernardino Regazzoni, già ambasciatore svizzero in Cina, Francia e Italia - mai si era visto un livello di volgarità come quello raggiunto da Donald Trump».

Inevitabile chiedere all’ex diplomatico di lungo corso quale reazione si dovrebbe tenere di fronte a un simile episodio. «È chiaro come in casi del genere prevalga sempre il fattore sorpresa. E davanti alla sorpresa è sempre buona norma mantenere il sangue freddo, evitare quindi le risposte d’impeto. L’ho imparato in Asia - dice Regazzoni - colui che eccede attorno a sé crea il gelo. Meglio quindi fermarsi, stare a guardare». Nei panni del collega americano, chiamato a giustificare o a spiegare le parole del suo presidente, la prospettiva ovviamente cambia.

«Per fortuna - spiega con ironia Regazzoni - non sono mai stato esposto a questo genere di cose. Ma, a ogni modo, l’ambasciatore è un servitore. Deve assumere, non contraddire. Né scusare. Meglio usare qualche circonvoluzione».

Insomma, fare buon viso a cattivo gioco. Secondo le regole della migliore scuola di diplomazia. «Certo è che in Cina una cosa del genere sarebbe semplicemente inimmaginabile - dice ancora l’ex ambasciatore svizzero a Pechino - in Asia, ogni eccesso squalifica chi lo utilizza. Mai si sognerebbero di rispondere con la stessa moneta a un linguaggio così volgare. Ci sono molti modi per essere efficaci e duri, e li conoscono tutti, glielo assicuro». Regazzoni torna tuttavia su un punto: il mai visto. Come tutto ciò che prima non c’era, così anche per inquadrare il linguaggio del presidente statunitense «serve tempo. Noi europei siamo stati influenzati dai modi di comunicare americani. Mi riferisco al culto dell’immediatezza, alle pacche sulle spalle - spiega - Da decenni consideriamo questa la migliore comunicazione possibile. In passato avevamo qualche anticorpo che adesso è scomparso. Al punto che sono molti, pure qui, a promuovere Trump, a dirgli bravo. Perché lo fanno? È questa la domanda che dovremmo porci».