«Il velo integrale cancella la donna dallo spazio pubblico»

Fra le personalità più impegnate per il divieto di dissimulazione del viso (iniziativa anti-burqa), in votazione il 7 marzo, c’è Saïda Keller-Messahli, fondatrice e presidente del Forum per un Islam progressista. L’abbiamo intervistata.
In Svizzera si calcola ci siano una trentina di donne che portano il velo integrale. E secondo studi lo fanno volontariamente. È giusto andare a modificare la Costituzione federale per un fenomeno tanto marginale?
«Lo studio a cui si riferisce è dibattuto. Il suo autore, il ricercatore Andreas Tunger-Zanetti, ha parlato con una sola donna con il velo integrale. Non lo trovo serio. A ogni modo lo studio parla di donne convertitesi in Svizzera. Si tratta di una categoria speciale, appunto perché ha scelto volontariamente di mettere il burqa o il niqab. Non l’ha fatto sotto la pressione della società o della famiglia. Sono donne che vivono in Svizzera e possono flirtare con il velo integrale. Un capo misogino, tra l’altro non richiesto dall‘Islam. Queste donne convertitesi al salafismo sono musulmane “hors-sol” che stanno causando un grande danno alla popolazione musulmana in Svizzera».


Ma insisto: è giusto andare a toccare la Costituzione federale per queste poche donne che scelgono il burqa o il niqab di propria volontà?
«Sì, perché in Svizzera, in una società democratica e aperta, deve valere il principio per cui ci si deve poter guardare in faccia. Un buon argomento viene da un ex giudice federale membro, nota bene, del PS: si tratta di Raymond Spira, secondo cui è corretto chiedere che nella Costituzione venga ancorato quanto chiesto dall’iniziativa. Bisogna poter comunicare fra cittadini. Questa trentina di donne che scelgono di indossare il burqa non lo fa. E allora che ne tragga le conseguenze. Senza farsi pagare le multe da qualche uomo ricco, come Rachid Nekkaz fece con Nora Illi in Ticino».
In Ticino e a San Gallo, i due cantoni in cui è già in vigore il divieto di dissimulazione del viso, di multe ne sono state inflitte poche o non ne sono state inflitte. Questo non indica quanto poco sia necessario un divieto simile?
«Per me non è una questione di matematica, ma di etica. Quello che rappresenta il velo integrale è inaccettabile: è la cancellazione della donna dallo spazio pubblico. Le quattro scuole di giurisprudenza dell’Islam danno una risposta univoca: il corpo della donna è indecente e impudico. Ragione per cui dev’essere completamente coperto, al contrario del corpo maschile. La Sharia, la legge islamica, si basa su questa immagine misogina della donna. Un’immagine che è la fonte delle violenze sulla donna nel contesto islamico».
Ma in Svizzera il diritto non si basa sulla Sharia.
«No, ma quello che voglio dire è: queste convertite che vivono l’Islam come qualcosa di esotico e pensano che coprendosi il viso diventano più vicine a Dio, non posso prenderle sul serio e neppure sostenerle. Quella che presentano è una caricatura dell’Islam basata su un simbolo misogino come il burqa».


La sua è una lotta contro queste donne?
«No, non sono vendicativa. E non va dimenticato che il testo dell’iniziativa non parla solo di velo integrale. Ma anche di hooligans e altre persone che possono mettere a rischio la nostra sicurezza nascondendo la loro identità. E non è che il comitato d’iniziativa mi stia simpatico. Anzi. Anni fa ho lottato contro l’altra iniziativa che ha lanciato: quella contro i minareti. Ma il testo in votazione oggi va valutato indipendentemente dalle persone che lo hanno redatto. Sa, una volta sulla Bahnhofstrasse a Zurigo ho visto due turiste dal viso coperto e, dato che l’arabo è la mia lingua madre, le ho avvicinate. Mi hanno spiegato che stavano facendo un viaggio all’insegna dello shopping e che prima erano già state in Ticino. Ho chiesto loro come avessero convissuto con il divieto del burqa già in vigore a sud delle Alpi. Mi hanno risposto che hanno avuto piacere a togliere il velo, poiché così nessuno più le stava a fissare. Si sono sentite come tutti gli altri. Mi pare un messaggio importante. Infine chiesi loro perché non facessero la stessa cosa anche a Zurigo. Mi risposero che erano abituate a vestirsi in quel modo».
Harald Rein, vescovo della Chiesa cattolica e presidente del Consiglio svizzero delle religioni, si è espresso negativamente sul testo in votazione: «Da un lato - ha detto - vige l’obbligo religioso di velarsi, e dall’altro, ci sarebbe un obbligo governativo di svelarsi». Non si rischia di violare la libertà di religione e di discriminare una minorità religiosa sostenendo l‘iniziativa?
«Penso che Harald Rein si sbagli. Il velo non è un obbligo per le musulmane. Addirittura l’Università al-Azhar del Cairo, l’istanza massima dell’Islam sunnita, ha confermato che non lo è. E la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo ha decretato che la legge in vigore in Francia sul divieto di coprirsi il volto non viola i diritti umani. E non si tratta di un obbligo di svelarsi. Piuttosto di riconoscere un principio che fa parte della cultura di una società aperta e democratica. Infine, la minoranza cui fa riferimento sono i salafiti, che recano molti danni al resto dei musulmani e all’immagine della loro religione. Ho l’impressione che si fa di questa vicenda una storia fra la donna e lo Stato. Ma in realtà è una questione sociale. Si tratta anche di dimostrare solidarietà internazionale. Coloro che sono obbligate a indossare un niqab non possono parlare per loro stesse. È nostro dovere farlo per loro, noi che possiamo».
Il controprogetto indiretto, che entrerebbe in vigore in caso di un no alle urne (referendum permettendo) è volto a sostenere la parità fra l’uomo e la donna e l’integrazione degli stranieri, nonché migliorare la situazione delle donne nel sostegno ai Paesi più poveri. Non sono misure da sostenere queste?
«Il testo del controprogetto mi pare troppo astratto. Da decenni la Svizzera fornisce aiuto allo sviluppo. Ma questo è stato in grado di impedire la repressione contro le donne? Che cosa si vuole fare concretamente ora? Paesi come l’Arabia Saudita sono molto ricchi. Non hanno bisogno di aiuto allo sviluppo. E in altri contesti non funzionerebbe mai. Non pensiamo si possa andare dai talebani a parlare loro di pari diritti. Inoltre, la controproposta non affronta il significato misogino del velo integrale indossato dalle donne musulmane».


Non ha paura che si usi l’iniziativa per aumentare l‘islamofobia?
«Come detto, bisogna valutare il testo per quello che contiene. L’iniziativa parla di un divieto generale del velo ed è anche diretto contro gli hooligan e persone rivoltose. Sono i salafiti, presso cui il burqa è di casa, che aiutano ad accrescere l’ostilità contro i musulmani. Il velo integrale per loro è un modo per portare l‘Islam politico, radicale, nei luoghi pubblici».
Se ci vogliamo proteggere dall’Islam politico non ci sono altri metodi per farlo?
«Sono necessarie varie misure. Io sostengo l’iniziativa per dare un segnale. Chi sostiene l’Islam politico sa quali sono le sue libertà in democrazia. Sanno di avere libertà di religione e di espressione. Sfruttano queste possibilità per arrivare al loro scopo: far arrivare l’Islam politico ovunque. Non dobbiamo essere ingenui».
Fra i contrari si pensa anche che un sì il 7 marzo possa aumentare l’astio da parte dell’Islam radicale.
«Anche durante la campagna di votazione per il divieto di costruzione dei minareti si usava questo argomento. E dopo il sì popolare le cose non sono cambiate in peggio. Anche le paure di contraccolpi nel settore turistico sono state sconfessate».
I sostenitori dell’iniziativa sostengono anche che il divieto di dissimulare il viso aiuta a prevenire attacchi terroristici. Alla Manor di Lugano si è svolto un attacco che potrebbe essere stato di tipo terroristico jihadista. Se così fosse, un divieto di dissimulazione del viso a livello nazionale (e pensando al fatto che in Ticino è già in vigore) avrebbe forse potuto evitare quanto accaduto?
«Non avrebbe potuto evitare il dramma. Ma questa non è nemmeno l’intenzione dell’iniziativa. Sembrerebbe che l’autrice dell’attacco, radicalizzata, avesse problemi di salute mentale. Persone come questa convertita saranno sempre un rischio per la società».
La scheda
Chi è
Saïda Keller-Messahli, 63 anni, è nata a Aouina, vicino a Bizerte, nel Nord della Tunisia. Ha trascorso parte dell’infanzia a Grindelwald. In seguito ha studiato a Zurigo romanistica, letteratura inglese e scienze cinematografiche. È una giornalista freelance svizzero-tunisina, scrittrice e attivista dei diritti umani. È la fondatrice (nel 2004) e presidente del Forum per un Islam progressista. Nel 2016 ha ricevuto il Premio svizzero per i diritti umani. La rivista «Schweizer Illustrierte» la annovera fra le cento donne zurighesi più importanti.
Ha iniziato a interessarsi alla questione dell’Islam attraverso il libro «La malattia dell’Islam» del franco-tunisino Abdelwahab Meddeb. Si è fatta conoscere nella sfera pubblica svizzera promuovendo un Islam liberale e criticando l’Islam politico. Ha sostenuto la creazione di un registro e di un sistema di autorizzazione per gli imam e la limitazione a 300 del numero di moschee in Svizzera.