«In fuga dal capo egocentrico»: caos nelle cucine del San Carlo di Locarno
Li chiameremo Leonardo, Noah e Emma. Preferiscono non apparire con i veri nomi. Almeno per ora. Ma poco importa, perché ciò che conta sono i momenti da loro vissuti al San Carlo, l’Istituto per anziani di Locarno. Più precisamente, nelle cucine. Situazioni sgradevoli. E tanto. «Abusi, mobbing», potrebbe dire qualcuno. Le loro storie si sono concluse con la fuga da condizioni di lavoro «umilianti». Malumori e malcontento causati dalla gestione di un cuoco, il loro capo, descritto come «egocentrico». Undici persone, nel giro di qualche tempo, se ne sono andate. Stanche di essere prese di mira, schernite e sovraccaricate di compiti definiti «assurdi, esagerati». Così tanto da costringerli a presentarsi con largo anticipo rispetto all’orario «canonico». Con la pressione di non dover timbrare per non far figurare ore extra.
Accuse e replica
Le lamentele arrivano fino in direzione. Un paio di settimane fa, l’annuncio: l’Istituto cerca un nuovo capo cuoco. Le due storie sono collegate? Le partenze avevano sollevato qualche interrogativo. Sul Corriere del Ticino del 10 maggio, la risposta dell’ente interessato: «Sono solo voci incontrollate».
Claudio Franscella, da aprile vicesindaco nonché da luglio presidente dell’istituto, da noi contattato ribadisce di aver incontrato anche i sindacati e che questi si erano detti soddisfatti della situazione al San Carlo: «Lo stesso vale per me e quanto scritto all’epoca nella nostra risposta vale ancora oggi. Dopo sei o sette anni, fra l’altro un periodo lungo nel settore, lo chef ha solo deciso di cambiare. Per noi è stata una sorpresa, perdiamo una persona di valore. Ma è giusto che ognuno pensi al suo futuro». Accuse rimandate al mittente, insomma, anche se le affermazioni in un’interrogazione finita sul tavolo del Municipio poco prima delle elezioni comunali restano pesanti: «Un grande carico di lavoro che costringerebbe le maestranze a presentarsi prima per poterlo completare». Sia chiaro, i racconti restano soggettivi, ma comunque esperienze vissute da chi, nel settore della ristorazione, ha avuto anni e anni di esperienza. «Ne ho visti di posti di lavoro, ma questo è stato il peggiore», dice Noah. Oggi svolge un altro incarico molto vicino a quello dei tempi del San Carlo, ma si trova molto meglio. «L’ambiente in cucina è cambiato tanto negli ultimi anni, dall’arrivo del nuovo chef. Una persona ‘esaltata’ che ricorre a minacce, a offese. Era spesso nervoso. Urlava, inveiva contro di noi. Dopo le sfuriate, si ritirava nel suo ufficio. Scriveva e scriveva. Non ho mai visto un cuoco scrivere così tanto».
I «verbali»
Noah mostra alcune stampe: indicazioni dettagliate su come aprire gli scatoloni dei viveri, sulle ricette, sulla gestione della merce. «Ma noi sappiamo fare il nostro mestiere, bastava una frase, non tre pagine da leggere», incalza Leonardo. «C’erano poi questi ‘verbali’, delle ‘ammonizioni’ scritte. Fogli da firmare quando facevamo qualcosa che secondo lui non andava bene. Pieni di bugie, di accuse campate in aria. Nell’ultimo, sono stato accusato di poca igiene. Oltre ad aver rotto delle porcellane che in realtà erano solo cocci da tempo». Dopo il primo giorno, arriva già il primo ‘verbale’ con l’accusa di aver litigato con l’apprendista. «Tante falsità. E così, a un mese dalla scadenza del contratto, fra l’altro rinnovato di sei mesi in sei mesi, mi sono messo in malattia». Leonardo afferma di essere caduto in depressione.
«Già il primo giorno dopo la firma avevo capito com’era l’andazzo. Diceva: ‘Non parlare con nessuno, non devi nemmeno salutare. Guai a farti amici, qui’. ‘Io sono Maradona, voi dovete fare quel che dico io. E basta. Questa è la squadra’. Inevitabile scappare da una persona così. Non potevi fargli notare nulla, anche accorgimenti imparati nei nostri anni di esperienza. Lui non si metteva in discussione».
Sommersa dai «doveri»
Emma, invece, racconta un altro risvolto inquietante. Al contrario dei colleghi che svolgevano l’incarico di aiuto cuoco, lei aveva in mano la preparazione dei dolci. L’esperienza, anche a lei, di certo non manca. Tra impasti e creme da quando aveva 15 anni, oggi la sua vita è molto più tranquilla. Per certi versi aver abbandonato «quell’ambientaccio» è stata una benedizione.
«Sono una persona che lavora. Non discuto gli ordini, eseguo al meglio delle mie capacità. Infatti lui, il nostro capo, l’aveva capito. Nel giro di qualche mese mi son ritrovata, oltre a dover intercalare preparazioni che richiedono concentrazione e tempo, altri compiti. Come caricare e scaricare la lavastoviglie. Scaricare la merce. Aprire gli scatoloni, comprimerli per lo smaltimento, etichettare gli imballaggi degli alimenti. Ogni quindici minuti dovevo interrompere il mio lavoro principale».
Duecento ore di straordinari
Emma tiene la bocca chiusa e, pur di portare avanti tutti i compiti, non si tira indietro e accumula ore e ore di straordinari. Duecento, saranno alla fine. Il suo lavoro principale è quasi relegato in un angolo, eppure le sue specialità regalano gioia agli ospiti. Torte, amaretti, biscotti di Natale. Tutto preparato con le sue mani. «Il ‘nostro’, però, aveva da ridire. Magari quando c’era un po’ di ritardo nella consegna di una torta per celebrare... una ricorrenza privata. Un lavoro ‘extra’, insomma. Come se non ce ne fossero a sufficienza».
Alla fine, anche lei scoppia. «Mi sentivo sommersa dal lavoro. Era impossibile». Ora sembra che non ci sia più nessuno a preparare i dolci. Addio al tocco di artigianalità tanto apprezzato dagli ospiti. E le ore straordinarie? «Mi hanno detto ‘Forse sei solo lenta’. La metà, alla fine, le hanno comunque pagate». Tre storie soggettive, per carità. Ma raccontate da persone che di cucine ne hanno vissute. Con anni di esperienza alle spalle. Tutte concluse con una soluzione: la fuga.