La Cina di Xi e l’Europa unita, i due «nemici» di Donald Trump

Analisti, commentatori, studiosi si interrogano ogni giorno, da due mesi a questa parte, su quale sia la strategia politica dell’amministrazione di Washington. Le oscillazioni del presidente Donald Trump sono talvolta veri e propri bradisismi in grado di lesionare, quando non addirittura far crollare, scelte e convinzioni date per acquisite.
«Personalmente, ho un’idea di quali potrebbero essere le dinamiche generali della politica attuale degli Stati Uniti, ma so che, nella realtà dei fatti, quella stessa politica quotidiana si assesta, è cioè l’adattamento di grandi quadri alle circostanze mutevoli - dice al Corriere del Ticino Andrea Colli, ordinario di Storia globale e geopolitica all’Università Bocconi e fellow dell’Institute for European Policymaking dello stesso ateneo - Trump è andato al governo in America con una promessa elettorale precisa: proteggere le classi medio-basse della società americana. Lo sta facendo a modo suo. Per esempio, con una guerra commerciale che ormai si è spostata a livello globale e prendendosela con tutti coloro i quali, a suo giudizio, sottraggono posti di lavoro agli americani. Quindi, con chi produce beni importati negli States a costo inferiore di quelli realizzati in America. Il punto è che Trump dimentica come il vero problema sia la propensione ossessiva al consumo dei suoi concittadini. Una spinta che ha fatto diventare gli USA un mercato enorme per la Cina o l’Europa».
Il primo scenario
Dal punto di vista della visione di politica internazionale, «ammesso e non concesso che ne abbia una, il nemico di Trump è in realtà la Cina - dice ancora Andrea Colli - e, in questo senso, vedo due scenari possibili. Nel primo, il presidente americano ha in mente una struttura dell’ordine mondiale formata da alcuni grandi poteri che si dividono sfere d’influenza molto o abbastanza precise. Questi grandi poteri coincidono sostanzialmente con gli Stati Uniti, con la Cina e, probabilmente in una posizione un po’ di retroguardia rispetto agli altri due, con la Russia di Vladimir Putin. Faccio osservare che due di queste potenze non sono democrazie. Gli Stati Uniti, invece, sì, anche se Trump, a parere di molti, sta portando un assalto abbastanza determinato alle istituzioni democratiche del Paese, soprattutto in questo secondo mandato presidenziale».
Quale sarà, allora, l’equilibrio tra queste grandi potenze, «tra le quali si potrebbe anche eventualmente inserire, sempre in una posizione minore, l’India di Narendra Modi, un’altra realtà semi-democratica? - si chiede Colli - e quali saranno i rapporti tra queste grandi potenze? Potrebbero essere gli stessi che intercorrevano nell’Ottocento tra le grandi potenze europee, cioè una mutua concertazione del potere in maniera tale da non prevaricare l’uno l’altro, e quindi risolvere tutte le problematiche all’interno di un club relativamente ristretto. Una prospettiva molto diversa da quella che viviamo oggi; una prospettiva che vede alcune grandi potenze decidere tutto e non più, invece, un sistema in cui istituzioni di governo globale, concertate tra i Paesi, consentono a ciascuno di convivere in modo relativamente pacifico e tranquillo».
Il secondo scenario
Il secondo scenario che Trump potrebbe avere in mente, prosegue lo storico milanese, «presuppone invece un nemico principale: la Cina. In questo caso, l’azione degli USA, da un punto di vista meramente strategico, è di contrastare l’espansione geografica cinese nel Pacifico e le iniziative infrastrutturali della Belt and Road in Asia. Ciò spiegherebbe, in qualche modo, un tentativo di avvicinamento alla Russia di Putin così smaccato e così anche eccessivamente spudorato. Perché in fondo la Russia, che pure ha uno strettissimo rapporto con la Cina, con cui si è reciprocamente giurata eterna amicizia, è in ogni caso il Paese che vede diminuita la propria influenza al centro del continente eurasiatico proprio per l’espansione cinese verso ovest».
L’idea di accerchiare geograficamente la Cina potrebbe così essere il primo passo di un «conflitto che non è combattuto con le armi, ma con il controllo delle tecnologie, delle terre rare, delle risorse naturali e via dicendo. È evidente che Washington vuole tenere sotto controllo Pechino limitandone la crescita economica. Tra l’altro, questo è esattamente ciò che stava cercando di fare anche l’amministrazione Biden. Il mantenimento della crescita economica ossessiona la leadership cinese. Xi Jinping sa benissimo che, senza crescita, tutto il sistema scricchiola, anche a causa degli enormi problemi di diseguaglianza tra la popolazione. Far rallentare l’economia cinese è possibile chiudendo il ricco mercato americano a Pechino attraverso i dazi e indebolendo il più possibile l’altro grande partner commerciale della Cina: l’Europa».
In entrambi questi scenari, conclude la sua riflessione Andea Colli, «per Trump sarebbe meglio che l’Europa non esistesse. Innanzitutto, perché l’Europa non è un’entità politica simile a quel gruppo di autocrazie o dittature con le quali gli Stati Uniti potrebbero decidere di spartirsi le sfere d’influenza. È piuttosto un baluardo della democrazia liberale e può contrastare, anche sul piano culturale, spinte autoritarie. Inoltre, l’Europa è un grande mercato di consumo per i cinesi. Se si sposta il consumo europeo, ad esempio, sull’industria degli armamenti, ciò potrebbe avere un impatto negativo sull’economia cinese. Per Trump, insomma, un’Europa debole e senza alcuna influenza dal punto di vista militare, politico, geopolitico sarebbe una situazione ideale».