La minaccia russa agli USA: «L'Alaska è nostra, ce la possiamo riprendere»
«L'Alaska è della Russia. Gli Stati Uniti dovrebbero sempre ricordarlo». A dirlo è stato il presidente della Duma di Stato russa, Vyacheslav Volodin, nella seduta finale della Camera bassa del Parlamento prima della pausa estiva. «Prima che si impadroniscano delle nostre risorse all'estero, devono ricordare che anche noi abbiamo qualcosa da riprenderci». E ha pure aggiunto, trattenendo una risata tra gli applausi dei deputati: «La Russia non interferisce negli affari americani, ma i politici americani hanno incolpato la Russia per tutto ciò che sta accadendo nel Paese».
Ci riprendiamo l'Alaska, in pratica. Una minaccia che fa quasi sorridere, se non fosse che il momento è tragico. Il vicepresidente della Duma, Pyotr Tolstoy, ha seguito la scia e ha proposto il lancio di un referendum tra gli abitanti dell'Alaska per l'adesione alla Federazione Russa.
L'acquisto dell'Alaska
Centocinquantacinque anni fa, nel 1867, a Washington venne firmato un accordo. Il segretario di Stato americano William H. Seward e il diplomatico russo Eduard de Stoeckl firmarono l’atto di vendita dell’Alaska agli Stati Uniti d’America. Con un tratto di penna, lo zar Alessandro II cedette l’ultimo lembo di terra russo in Nordamerica per la modesta cifra di 7,2 milioni di dollari. Un pugno di mosche.
Dal XVI secolo ai primi del Novecento la Russia fu protagonista di un instancabile processo di espansione che culminò con la conquista dei vastissimi spazi siberiani. Nel 1725 lo zar Pietro il Grande inviò Vitus Jonassen Bering a esplorare le coste dell'Alaska nell'ambito di quella che è ricordata come la «Seconda spedizione in Kamčatka». I russi compresero fin da subito le potenzialità del territorio appena scoperto e, dopo aver piegato la resistenza indigena, fecero germogliare una serie di insediamenti lungo tutta la costa. A partire dal 1743 cominciarono le prime spedizioni commerciali provenienti dalla Russia e dalla Siberia. Con il decreto del 1799 lo zar Paolo I dette l'avvio formale alla colonizzazione dell'Alaska. Ma la regione era poco popolata (si stima che nel 1867 ospitasse circa 2.500 russi e 8.000 autoctoni), lontana dalle principali rotte commerciali e militarmente indifesa. Inoltre, l’ostilità delle riottose tribù locali, le condizioni climatiche avverse e la scarsità di manodopera non avevano permesso una colonizzazione particolarmente strutturata. A questi, si sommava la disfatta subita in Crimea nel 1856 che metteva in evidenza le lacune militari. L’Alaska, territorio percepito come lontano, indifeso e poco produttivo, appariva come una utile merce di scambio per consolidare nuove alleanze e ottenere liquidità da impiegare sul fronte interno. A metà Ottocento c'erano due possibili acquirenti: l’impero britannico e la (giovane) potenza statunitense. Nel 1865, conclusasi la guerra civile, responsabili delle trattative furono designati Eduard de Stoeckl e William H. Seward.
Dopo una lunga negoziazione, il trattato (che conteneva i confini geografici e la proprietà dei beni disponibili) fu firmato il 30 marzo 1867. Il prezzo concordato: 7,2 milioni di dollari. Il 18 ottobre 1867 si tenne la cerimonia di trasferimento dei poteri nella città di Sitka. Soldati russi e americani sfilarono davanti alla casa del governatore, calando la bandiera russa per issare quella a stelle e a strisce. I cittadini russi potevano scegliere se tornare in patria entro tre anni o rimanere e divenire cittadini statunitensi. Le tribù native finirono per essere sottoposte al diritto americano. In Russia, l’evento fu celebrato come un successo diplomatico e un guadagno in termini economici che avrebbe permesso un'espansione in Europa e in Asia, a differenza della «sterile» Alaska.
Beni congelati o beni confiscati?
Fine del momento «e adesso un po' di storia». La guerra è giunta al 134. giorno. E da ormai un mese si susseguono in Occidente le voci a favore del finanziamento della ricostruzione dell'Ucraina con i beni sequestrati alla Russia. L’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, a inizio giugno ha definito «logica» l’idea. La segretaria del Tesoro statunitense, Janet Yellen, aveva invece frenato: «Per quanto sia ovvio che la Russia debba pagare i danni, non sarebbe possibile per gli Stati Uniti utilizzare i beni russi che sono stati sequestrati». Negli Stati Uniti però, già in aprile la Camera dei rappresentanti aveva varato un disegno di legge che chiede al presidente Joe Biden di espropriare i beni congelati degli oligarchi e destinarli al sostegno militare e all’aiuto umanitario in Ucraina. «Bisogna scovare gli averi patrimoniali russi e procedere alla loro confisca o al loro congelamento», aveva esortato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un discorso online in occasione del Froum economico mondiale (WEF) di Davos. «Siamo fortemente impegnati a sostenere la ricostruzione in Ucraina e a intensificare i nostri sforzi. Per farlo esploreremo anche l'opzione dell'utilizzo dei beni russi congelati, nel rispetto delle nostre leggi nazionali», si legge nella dichiarazione finale del G7 sull'Ucraina. Anche a Lugano, durante la Conferenza sulla ricostruzione dell'Ucraina (URC2022) il premier ucraino Denys Shmyhal ha voluto insistere sulla necessità di utilizzare i fondi congelati degli oligarchi russi per finanziare la costruzione: «Gli invasori devono pagare per i danni arrecati al Paese». Il presidente della Confederazione Ignazio Cassis aveva risposto: «Il congelamento dei fondi e delle proprietà dei dittatori non è una novità nella Confederazione. Bisogna anche distinguere tra congelamento e confisca. In alcuni casi particolarmente gravi, la confisca di fondi e beni di oligarchi può essere ritenuta un’opzione (Berna ha già bloccato 6,3 miliardi di franchi). La base legale dovrebbe comunque essere aggiornata. Per ora, va applicato il principio di proporzionalità».
L’ex presidente russo, Dmitry Medvedev, non le manda a dire: «L’idea stessa di castigare un Paese che possiede il più grande arsenale nucleare del mondo è di per sé assurda. E questo potenzialmente crea una minaccia per l’esistenza dell’umanità». Medvedev si è poi chiesto chi è il «temerario o idiota» che chiede queste azioni, e ha menzionato gli Stati Uniti, facendo un lungo elenco di aggressioni militari, a partire dalla Seconda guerra mondiale. «Quale tribunale ha condannato il mare di sangue versato dagli Stati Uniti in Vietnam e altrove? Nessuno!». La Russia che minaccia di «riprendersi» l'Alaska è solo l'ultima uscita di una lunga serie.