L’alba di un’altra America, alla ricerca di nuovi equilibri
Siamo tutti reduci dalla lunga notte elettorale americana. Ma come inciderà il cambiamento, in un senso come nell’altro, sulla politica interna ed estera? E poi, fino a oggi, ci siamo concentrati tanto sulla corsa presidenziale, ma in palio non c’era solo la poltrona di leader della Casa Bianca. Insomma, nell’attesa di certezze, con Mario Del Pero, professore di Storia all’istituto di Sciences Po di Parigi, esperto in particolare di storia americana, abbiamo provato a riflettere sui possibili scenari al di là dei nomi. «Il sistema americano è un presidenzialismo debole, in cui i poteri sono divisi tra l’Esecutivo e il Legislativo, con un Giudiziario, la Corte Suprema, molto attivo e presente, che può intervenire su questioni politiche. L’abbiamo visto bene negli ultimi tempi». Poi continua: «Dicevo: un sistema federale in cui il potere federale deve dialogare, deve interagire, con quelli statali. Ci sono competenze reciproche ben definite, e ci sono pure molte aree di ambiguità». La storia degli Stati Uniti è mossa da questa dialettica, spesso altamente conflittuale, tra il potere statale e il potere federale. «Perché la democrazia americana è una democrazia vecchia, persino anacronistica. È la più vecchia tra le democrazie in vita, con una Costituzione che ha quasi due secoli e mezzo. Immaginata per un’altra epoca, è una Costituzione ossuta: 7 articoli, 28 emendamenti; e da più di mezzo secolo è impossibile votare un emendamento. Quindi è costantemente interpretata, reinterpretata». Detto ciò, al crescere della potenza americana e dell’influenza globale di questa potenza, al crescere dello Stato nel ruolo di regolamentatore, «è aumentato di molto il peso e sono cresciuti i poteri del presidente». Poi resta chiaro che questa dialettica «limita il raggio d’azione, l’autonomia d’azione della presidenza, fattasi più forte, ma pur sempre all’interno di un sistema che rimane a presidenzialismo debole. E allora molto di quel che accadrà nel prossimo biennio dipenderà dall’esito anche di altre elezioni». Secondo Del Pero, se è vero che Biden è riuscito a portare a casa una legislazione pesante, «lo ha fatto solo finché aveva la maggioranza alle due Camere, per quanto molto striminzita».
La polarizzazione
Riassumendo, «si votano 34 senatori - 33 più un’elezione suppletiva - ed è altamente probabile che i repubblicani riconquistino il Senato perché hanno una mappa elettorale molto vantaggiosa. E quindi, anche in caso di Amministrazione Harris, ci sarebbe poi un Governo diviso con il Senato che passerebbe sotto il controllo dei repubblicani». Insomma, di fronte a uno scenario simile - tra oggi e domani dovremmo saperne di più -, il Governo sarebbe destinato a «un’epoca di alta polarizzazione». E quando un Governo si ritrova in una posizione simile, tende a essere «un Governo inefficiente e inefficace, a rischio di paralisi legislativa. Questo porta i presidenti a governare per via esecutiva e con strumenti che, privi di codificazione legislativa, producono solo riforme monche». Sì, insomma, basta poi un cambio di presidenza e vengono annullate. Fino alla vigilia, risultava ancora incerto pure il voto per la Camera dei rappresentanti, ora in mano repubblicana. «Si vota per 85 assemblee legislative statali su 99. E in questi anni, spesso i Governi statali hanno fatto una politica di opposizione attiva al Governo federale, a volte tracimata in veri scontri e in vere crisi costituzionali. Basti pensare, in tempi recenti, tra Texas e Amministrazione Biden, o appena prima tra California e Amministrazione Trump». Se poi oggi, al risveglio, scopriremo che proprio Trump è tornato alla presidenza, «be’, al comando ci sarà di nuovo un uomo con inclinazioni autoritarie e un basso tasso di alfabetizzazione istituzionale, con un evidente rischio che questi conflitti diventino laceranti».
La politica estera
I margini di manovra e di autonomia di un’Amministrazione americana diventano ancora più ristretti in politica estera. Mario Del Pero sottolinea tre aspetti importanti. E parte da un assunto «condiviso da Kamala Harris e Donald Trump, e condiviso anche da larghe maggioranze dei loro elettori». Quale? «Che gli Stati Uniti debbano, in una certa misura, uscire dai processi di globalizzazione contemporanei, disaccoppiando la loro economia da quella cinese, uscendo dalle dipendenze che hanno rispetto a catene transnazionali di valore che ne erodono la sovranità. Questo è uno scopo anche politico, elettorale: riportare la buona industria negli Stati Uniti. Perché la Cina è considerata il competitore di potenza». Poi, anche durante la campagna, sono emerse differenze sostanziali su come arrivarci. «Però questo risulta un assunto condiviso. È un assunto condiviso che la Cina sia l’avversario e che i processi di globalizzazione contemporanea l’abbiano favorita». Ma Del Pero parlava di tre aspetti. Ne restano due e sono facilmente riassumibili: Ucraina e Medio Oriente. L’Ucraina, per prima: «Sta avvenendo un cambiamento di contesto, che renderà molto difficile proseguire nella politica di aiuti economici e militari all’Ucraina nel sostenere la resistenza all’aggressione russa. Queste difficoltà sono più marcate tra i Repubblicani e sono espresse con forza da Trump, però emergono anche tra l’elettorato democratico. D’altronde, abbiamo visto nell’ultima discussione alla Camera, quali difficoltà vi siano state per arrivare ad approvare un nuovo stanziamento di aiuti». Infine, il Medio Oriente. E qui le differenze sono più marcate, tra Repubblicani e Democratici. Se Trump si è sempre detto vicino a Netanyahu, al punto da poter appoggiare anche un’eventuale azione militare contro l’Iran, la posizione di Harris è più complessa. Anche perché, nell’elettorato democratico, sono sempre più diffuse le posizioni critiche verso Israele, e c’è chi invoca un ripensamento della relazione speciale tra Washington e Tel Aviv. Non sono solo i giovani che manifestano nelle università, non sono solo le piccole comunità arabo-americane. Questa posizione ha oggi schieramenti più ampi. Il cambiamento di contesto è rilevante a tal punto da aver messo in difficoltà Harris durante la campagna elettorale e nelle sue politiche dichiarate».
La transizione
Nella nostra chiacchierata con il professor Del Pero, abbiamo affrontato anche quello che sarà il periodo di passaggio, questi due mesi, tra il presente e l’arrivo del successore di Biden, a gennaio. Insomma, quanto potrà, l’attuale presidente, mettere “le mani avanti” nei due mesi restanti? «Nell’immediato, l’Amministrazione Biden dovrà gestire la difficile transizione post-elettorale». Poi molto dipende dall’esito del voto. Ieri pomeriggio, quando abbiamo sentito Del Pero e quando abbiamo scritto questo articolo, tale esito era lontano ancora ore. Ma comunque, una vittoria di misura di Harris era «tutt’altro che irrealistica». E una vittoria di misura di Harris sarebbe «un esito che la controparte contesterebbe, non solo chiedendo legittimi riconteggi, ma avviando azioni legali, facendo pressione sugli attori statali competenti per la validazione del voto o addirittura mobilitando la piazza con il rischio elevatissimo di derive violente». Detto questo, «il Congresso ha approvato a larga maggioranza una serie di misure che dovrebbero rendere più semplice la transizione rispetto a quattro anni fa», rispetto a quando Joe Biden entrò in carica, per un quadriennio che inizia ad avere il gusto dell’eredità.
Un’epoca si chiude
«Un’eredità ambivalente», la giudica Mario Del Pero. «Può piacere o meno, Biden, ma è stato un presidente straordinariamente incisivo, ha portato a casa una legislazione pesante, il Chips Act, l’Inflation Reduction Act, iniziative legislative come non si vedevano letteralmente da decenni, pur avendo maggioranze piccolissime, minime. E poi, secondo punto positivo, ha mantenuto la coesione del suo partito - storicamente riottoso - e della sua amministrazione. A memoria mia, ma sfido chiunque a contestarmi, non ricordo un’amministrazione dell’epoca contemporanea più disciplinata, più coesa. Non c’è stata una dimissione, non ci sono state proteste, non ci sono state polemiche. Quindi un’efficienza di governo straordinaria». Ma c’è un «ma», che aleggia tra le parole del professor Del Pero, un «ma» anticipato d’altronde dall’aggettivo utilizzato per descrivere l’eredità: «Ambivalente». E allora eccoci: «Ma dall’altra parte, Biden ha una responsabilità molto grossa. Dopo questi risultati politici e legislativi, dopo un ottimo risultato elettorale al Midterm del 2022, uno dei migliori per il partito di un presidente appena eletto, nel corso del 2023 Biden avrebbe potuto e forse dovuto annunciare che non si sarebbe candidato a un secondo mandato e a quel punto presiedere, da padre nobile del partito e per certi aspetti della stessa patria, a un processo di selezione attraverso le primarie che avrebbe permesso di tenere i candidati democratici sotto i riflettori. E, parere mio, da queste primarie non credo sarebbe uscita Kamala Harris. Chi fosse uscito da quelle primarie, avrebbe avuto un’investitura di legittimità forte e avrebbe avuto il tempo di presentarsi al Paese».