Ma non chiamateli «pellerossa»

Balla coi lupi, L’ultimo dei Mohicani, Piccolo grande uomo: i capolavori del cinema western hanno segnato l’immaginario collettivo dell’Occidente legato agli indigeni d’America. Popoli che spesso, forse proprio anche a causa delle pellicole sopraccitate, sono stati mal compresi e stereotipati. Chi di noi, da bambino, non ha giocato al «cowboy» (buono) e al «pellerossa» (cattivo)? Immergersi nella storia dei nativi americani significa invece scoprire una realtà estremamente variegata. Dai Sioux, ai Lakota, passando per i Cherokee, oggi solo negli Stati Uniti sono presenti più di 500 «nations» e centinaia di lingue e dialetti. Tuttavia, conoscere la loro storia significa anche, purtroppo, imbattersi in una costante: la sofferenza e le difficoltà emerse dal loro incontro con gli occidentali. Invasioni, malattie, guerre, distruzione dell’habitat, sterilizzazione forzata e l’utilizzo di armi biologiche sono solo alcuni esempi di ciò che hanno vissuto negli ultimi 500 anni, dal sud al nord del Continente. Per commemorare la Giornata della memoria, che si svolge ogni anno il 27 gennaio in ricordo della liberazione del campo di Auschwitz, quest’anno l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia (ATIS) ha scelto proprio il tema dello sterminio dei nativi del Nord America. Ne abbiamo parlato con Massimo Chiaruttini, membro di comitato dell’associazione e Naila Clerici, già docente di Storia delle Popolazioni Indigene d’America all’Università di Genova e attuale direttrice della rivista «Tepee».

Professoressa Clerici, come descrivere la storia del complicato rapporto tra indigeni d’America ed europei?
«Fino al 1400 circa le popolazioni indigene americane si sono adattate in questi territori in maniera autonoma. Sono evolute secondo le loro esigenze, incontrandosi e anche scontrandosi tra di loro. Dal momento in cui sono arrivati gli europei le cose sono cambiate. Colombo non è certo stato il primo a giungere sul continente, però sicuramente l’impatto del suo incontro con gli indigeni è stato molto forte. Da quel momento c’è stata una vera e propria invasione. Un’invasione che all’inizio era soprattutto volta a trovare nuove ricchezze e nuove terre. A questo punto è necessario distinguere il rapporto economico tra Europa e America e il rapporto umano tra le popolazioni dei due continenti. E questo perché il rapporto tra le persone è avvenuto in maniera piuttosto equilibrata finché gli interessi economici sono stati convergenti. Se c’era comunicazione, scambio commerciale e quindi anche un interesse reciproco, il rapporto tra le parti funzionava. Quando invece gli interessi sono diventati divergenti è subentrato lo scontro, lo sfruttamento degli individui e lo sterminio».
C’è un momento in particolare in cui si può dire che il rapporto è cambiato?
«Sì, ma non è lo stesso per tutti. Dall’Europa sono arrivati innanzitutto gli spagnoli con un progetto di conquista e il cui mito era quello di trovare l’oro. Poi sono arrivati anche i francesi e gli inglesi, che in una prima fase erano interessati unicamente agli animali da pelliccia. E fino a che la ricerca di ricchezze non è stata esasperata, c’è stato un certo equilibrio nel rapporto con gli autoctoni. Gli stessi indigeni in certi casi erano contenti di procurare le pelli e ricevere in cambio delle merci europee. C’è stato anche uno scambio di conoscenze e di tecnologie tra le parti. Non esiste dunque un momento preciso in cui il rapporto è cambiato; con gli spagnoli è avvenuto già nel 1500, mentre con gli altri Paesi ha richiesto più tempo. Come detto, il cambiamento è avvenuto quando l’interesse economico è diventato preponderante e sono venuti meno gli equilibri di potere».
Quali erano i tratti salienti della loro cultura prima dell’arrivo degli europei?
«È molto difficile generalizzare. Si potrebbe fare un parallelo con l’Europa: anche noi, in quanto europei, abbiamo dei tratti in comune dal punto di vista culturale, ma anche molte differenze tra nazione e nazione, tra regione e regione. La stessa cosa valeva e vale oggigiorno per le popolazioni indigene, che sono evolute in territori molto diversi tra loro, e quindi con esigenze molto eterogenee. Esistevano comunque anche degli aspetti comuni. Ad esempio la spiritualità, lo stretto rapporto con la natura e la concezione secondo cui l’uomo non è al centro di tutto, bensì parte di un ecosistema. Si tratta quindi di realtà molto diverse. Solo negli Stati Uniti oggi esistono più di 500 ’’nations’’. Senza dimenticare le differenti lingue e dialetti che compongono queste realtà».
Come descrivere la realtà di oggi per queste popolazioni?
«Anche qui c’è molta diversità. La situazione in Nord America, rispetto al Sud America, è sicuramente molto diversa. Il livello di acculturazione e integrazione che c’è al nord non c’è in altre parti, ad esempio in Amazzonia, dove ci sono addirittura ancora dei gruppi mai contattati. Per quanto riguarda la situazione politica c’è un aspetto importante da sottolineare, ovvero che nessuna nazione indigena è rappresentata da uno Stato: tutte fanno parte di Stati la cui parte dominante non è autoctona. E quindi si presentano dei problemi dal punto di vista legislativo per ciò che concerne il riconoscimento e il rispetto di queste diversità. Negli Stati Uniti, così come in Canada, c’è una legislazione basata su trattati stipulati in gran parte nell’Ottocento. Trattati che per le popolazioni autoctone hanno significato una riduzione del territorio, e quindi anche delle risorse a disposizione».
Secondo lei è necessario attualizzare questi trattati?
«Non direi. Teoricamente non si potrebbe nemmeno fare. In linea di massima i nativi oggigiorno fanno riferimento a ciò che era stato stabilito in quei trattati. E chiedono che questi trattati vengano rispettati. Anche perché in molti casi sono stati infranti. Quindi più che attualizzarli, direi che è innanzitutto importante rispettarli».
Un altro tema delicato riguarda la questione del genocidio. Dal punto di vista storico non c’è unanimità nell’utilizzo di questo termine per descrivere i massacri nei confronti degli indigeni. In cosa consiste questo dibattito accademico?
«Il dibattito nasce dal presupposto che il termine genocidio è stato elaborato nel secolo scorso per descrivere le atrocità della Shoah. Di conseguenza alcuni storici sostengono che questo termine si riferisca a un periodo circoscritto, mentre nei confronti delle popolazioni indigene si è trattato perlopiù di atrocità avvenute nel corso di cinque secoli. Un altro discorso riguarda l’elaborazione ideologica del genocidio. E nel caso degli indigeni non si trova una vera e propria elaborazione teorica o filosofica del genocidio. Ci sono dei casi puntuali che possono essere considerati dei tentativi di genocidio: basti pensare, solo per citare un esempio, al massacro di “Wounded Knee”. Se però si ricercano le cause di tale massacro è difficile trovare prove concrete che vi sia stato un progetto ideologico per annientare tutta la popolazione indigena».
Qual è il suo parere al riguardo?
«A mio parere c’è stato sicuramente un grosso sforzo di genocidio culturale. Un vero e proprio progetto di acculturazione forzata: ovvero il tentativo di annientare la loro cultura per renderli più simili agli euroamericani. Un progetto che ha fatto danni gravissimi, anche se fortunatamente non è completamente riuscito. Basta conoscere qualche nativo a livello personale per accorgersi che ancora oggi sono culturalmente diversi dagli euroamericani, e mantengono i propri valori».
Uno sforzo, quello di mantenere le proprie tradizioni, che prosegue oggi.
«Certo. Spesso, però, è difficile anche per chi vive nelle riserve mantenere le proprie tradizioni, perché in alcuni casi si ritrova in una situazione più alienante di chi invece vive in città. Solo la metà delle popolazioni indigene, infatti, risiede nelle riserve. Anche in questo caso la situazione è molto variegata. Ci sono riserve in cui le condizioni di vita sono ottime, altre, invece, presentano difficoltà enormi: disoccupazione altissima e nessuna prospettiva per il futuro».
Per quale motivo?
«Come le dicevo, i trattati stipulati nell’Ottocento hanno ridotto gli spazi a disposizione di queste popolazioni, a cui spesso sono stati assegnati i territori peggiori, senza ricchezze e molto isolati, nei quali è difficile vivere e crescere dal punto di vista economico».
Per concludere: al di là della questione accademica, dedicare la giornata della memoria ai nativi americani è un gesto importante.
«Certamente. Soprattutto nella prospettiva di promuovere il rispetto delle culture diverse. Il primo errore è stato quello di arrivare dall’Europa e non riuscire a capire che si può essere umani, ma allo stesso tempo diversi. A mio parere questo è il messaggio che deve venir fuori da giornate di questo tipo. L’umanità ha aspetti comuni, ma anche diversità che devono essere accettate e rispettate».

GLI APPUNTAMENTI
Da lunedì 28 gennaio fino a venerdì 1 febbraio ogni giorno, per cinque giorni, 700 studenti di due scuole medie e tre licei ticinesi (Liceo di Locarno, Liceo di Lugano 1, Liceo di Mendrisio, Scuola media di Camignolo, Scuola media di Morbio Inferiore) avranno l’opportunità di ascoltare una relazione tenuta da Naila Clerici e la testimonianza di due Oglala Lakota provenienti da Minneapolis: Nina Berglund, di 19 anni, e suo fratello Nolan, di 17. Nina e Nolan racconteranno la loro esperienza di giovani nativi impegnati nella riscoperta della storia e delle tradizioni culturali del proprio popolo e nella difesa del territorio dei loro antenati.
Due serate pubbliche
Domenica 27 gennaio dalle 20.30 al cinema Lux Art House di Massagno si terrà una serata pubblica con entrata libera alla proiezione del film di Yves Simoneau L’ultimo pellerossa (USA 2007) e di due brevi documentari della regista Gwendolen Cates sulle lotte dei nativi americani.
Giovedì 31 gennaio, invece, dalle 18 nell’aula magna del Liceo Lugano 1 si terrà una conferenza pubblica con Naila Clerici, Nina e Nolan Berglung, intitolata «Perché il mondo ha dimenticato il genocidio degli Indiani d’America? Prospettiva storica e realtà attuale in Indian Country».
Potete trovare ulteriori dettagli al sito web www.atistoria.ch.

L’INTERVISTA A MASSIMO CHIARUTTINI:
«UN TEMA TRASCURATO MA DI GRANDE ATTUALITÀ»
Professor Chiaruttini, lei è membro del comitato dell’ATIS e docente di storia al Liceo Lugano 1. La storia delle popolazioni indigene d’America è spesso poco studiata rispetto ad altre culture. Come mai?
«È vero che i programmi scolastici prevedono che si parli dell’America quando si trattano gli argomenti legati alle conquiste e alle scoperte geografiche. E quando trattiamo questi argomenti, specialmente riguardo al sud e centro America, affrontiamo anche il tema del rapporto tra i conquistadores e le popolazioni locali. E quindi si parla anche delle conseguenze negative delle conquiste. Per quanto concerne il nord America, invece, il tema è meno affrontato nelle scuole. Credo, in fin dei conti, semplicemente perché i programmi sono ancora un po’ eurocentrici e di conseguenza quando si discute di nord America spesso si parla solo della nascita degli Stati Uniti, tralasciando la questione degli indigeni. Spesso dimentichiamo che nella Costituzione degli Stati Uniti c’è un riferimento negativo alle popolazioni autoctone del Nord America: si definiscono infatti gli indiani come “spietati e selvaggi”. Ed è vero, spesso ci si sofferma poco su questi aspetti. Ma dipende tanto dai docenti».
E al di fuori della scuola?
«Inevitabilmente questo si riflette anche nella società. A volte questo tema torna d’attualità, come nel caso delle pipeline negli USA che attraversano le riserve. Però è vero che rispetto ad altri è un tema poco sentito».
Con l’ATIS avete scelto di dedicare la Giornata della memoria 2019 alle popolazioni indigene americane. Come è nata l’idea?
«La Giornata della memoria il nostro cantone l’ha istituita nel 2005. E nel messaggio del Consiglio di Stato, poi votato dal Parlamento, era già precisato che questa Giornata non sarebbe stata dedicata unicamente al ricordo della Shoah, bensì a tutti i crimini contro l’umanità. Di conseguenza in quanto ATIS abbiamo cercato di spaziare su diverse tematiche: ovviamente trattando la Shoah, ma anche il genocidio degli armeni, le discriminazioni nei confronti dei rom, le conseguenze della colonizzazione in Africa, il comportamento delle autorità svizzere nel corso della Seconda Guerra Mondiale, eccetera. E quest’anno, giustamente perché riteniamo sia un tema un po’ trascurato, abbiamo deciso di dedicare questa giornata alle popolazioni indigene d’America. Cerchiamo anche di legarci all’attualità nell’ambito dell’educazione alla cittadinanza. Ma questa giornata è anche un modo per coinvolgere i colleghi con corsi d’aggiornamento, così come la società intera».
E per raccontare l’attualità avete invitato due giovani ospiti.
«Esatto. Proprio per discutere di come vivono oggi le popolazioni native. Per noi è molto importante avere delle testimonianze dirette. Non vogliamo riproporre la “lezioncina” scolastica, bensì cercare di far rivivere la storia, legandola all’attualità, appunto, attraverso delle testimonianze. Quando pensiamo a questo tema spesso vengono subito in mente le riserve. In realtà la metà degli indiani d’America vive nelle città. In alcuni casi sono ben integrati, in altri invece riscontrano ancora grossi problemi di discriminazione. E quindi abbiamo invitato due giovani, Nina e Nolan Berglund, che sono attivi non soltanto sul piano dei diritti degli indigeni, ma anche nella riscoperta delle loro tradizioni culturali. Assieme all’esperta Laila Clerici ci permetteranno di aprire una finestra a 360 gradi sulla storia e sulla realtà attuale degli indigeni d’America».