Economia

Miliardi negli USA per sedurre Trump: ma il piano divide

Nuovi dettagli sulla strategia del Governo in vista delle trattative sui dazi - Berna lavora a un documento che riassume gli investimenti del mondo economico - Reazioni in chiaroscuro: «Bene, ma attenzione a non delocalizzare troppe competenze»
© CdT / Chiara Zocchetti
Francesco Pellegrinelli
15.04.2025 06:00

Novanta giorni per trattare con l’amministrazione americana, per convincere il presidente Donald Trump che la Svizzera è un Paese amico. Qualche indiscrezione sulla strategia che la Confederazione intende adottare, in vista dei negoziati, l’ha anticipata nel fine settimane la NZZ: «150 miliardi di investimenti negli USA: la Svizzera vuole stupire Donald Trump».

Secondo la stampa d’Oltralpe, il dipartimento del consigliere federale Guy Parmelin starebbe elaborando un documento che riassume, uno per uno, gli investimenti che l’economia svizzera intende realizzare nei prossimi anni negli USA. L’idea è di fornire una lista, quanto più ampia ed esaustiva, per mostrare l’impegno finanziario delle aziende elvetiche negli Stati Uniti, e quindi convincere Trump a rinunciare ai dazi sulla Svizzera. Del tipo: ecco che cosa facciamo e che cosa possiamo fare nei prossimi anni.

In questi giorni, il Governo starebbe lavorando per ottenere il via libera della comunità imprenditoriale alla raccolta e alla presentazione degli investimenti pianificati. Le indiscrezioni parlano di un intenso lavoro dietro le quinte per riunire le intenzioni dei grandi gruppi, a cominciare dalla farmaceutica.

Farmaceutica, ma non solo

A fare la parte del leone sarà Novartis, che venerdì ha annunciato investimenti per 23 miliardi di franchi nei prossimi 5 anni. Secondo quanto riportato da Reuters, l’azienda basilese intende costruire sei nuovi centri di produzione e uno di ricerca a San Diego. Un’operazione da 4.000 posti di lavoro di cui 1.000 specializzati. Anche la rivale Roche ha annunciato l’intenzione di espandersi nel mercato americano, senza tuttavia rivelare l’entità dell’investimento.

Interpellata dal Blick, Scienceindustries – l’associazione mantello delle aziende chimiche e farmaceutiche svizzere – ha preferito non commentare le possibili conseguenze legate ai processi di delocalizzazione, limitandosi a sottolineare che tali dinamiche possono avere «effetti diversi» sulla piazza economica svizzera. Ma non è solo l’industria farmaceutica a cercare un nuovo posizionamento nel contesto della guerra commerciale. Anche le aziende attive nei settori meccanico e tecnologico stanno valutando l’espansione delle proprie capacità produttive negli Stati Uniti. Il gruppo tecnologico ABB, per esempio, intende investire complessivamente 120 milioni in due stabilimenti in Tennessee e Mississipi. Nella stessa direzione sembrerebbero orientati anche colossi come Stadler, il gruppo Bühler, e altre piccole e medie imprese.

«Attenzione al know-how»

L’ondata di nuove delocalizzazioni, sommata al ventilato piano da 150 miliardi di investimenti, ha suscitato reazioni contrastanti tra i principali attori dell’economia elvetica. «Non nascondo che sono perplesso», ha commentato il presidente dell’Unione svizzera delle arti e dei mestieri (USAM), Fabio Regazzi. «La Svizzera già oggi ha buoni argomenti da far valere sul tavolo delle trattative. Attenzione a promesse roboanti e a investimenti miliardari che potrebbero venire a mancare nel nostro Paese». Il ticinese ricorda che già oggi «siamo il sesto Paese per investimenti diretti negli Stati Uniti» e che «le imprese elvetiche hanno creato quasi mezzo milione di posti di lavoro, con un reddito medio annuo di 131 mila dollari». Regazzi si dice quindi contrario a una politica del «porgi l’altra guancia» e del «calar le braghe»: «Una delocalizzazione spinta rischia di trasferire all’estero competenze strategiche, con possibili ricadute negative per il know-how svizzero».

Più conciliante, invece, il parere di Swissmem, l’associazione mantello dell’industria meccanica. «Negli ultimi 20 anni, il mercato statunitense ha assunto un’importanza sempre maggiore per l’industria tecnologica svizzera», ha commentato, al CdT, il direttore Stephan Brupbacher. «In questo periodo molte aziende hanno stabilito o ampliato la produzione negli USA». Gli investimenti cumulativi delle aziende svizzere negli Stati Uniti ammontano oggi a oltre 350 miliardi di franchi. Secondo Swissmem, «le aziende avrebbero continuato a investire in modo sostanziale negli Stati Uniti anche senza la nuova politica tariffaria del presidente Trump». Insomma, Trump nel peggiore dei casi avrebbe accelerato una tendenza già in atto. In generale, il direttore di Swissmem sottolinea la cautela con cui le imprese si muovono: «Le aziende prendono sempre decisioni di investimento con grande attenzione. Le tariffe statunitensi sono solo uno dei tanti criteri. Altrettanto importanti sono aspetti quali la quota degli Stati Uniti nel fatturato e negli utili totali dell’azienda, il potenziale di mercato, la situazione della concorrenza, l’affidabilità del quadro di politica economica e la disponibilità di manodopera qualificata».

Il sondaggio

Ma quante sono, in realtà, le aziende disposte a valutare un’eventuale delocalizzazione negli USA? Secondo un sondaggio realizzato la scorsa settimana da Swissmechanic, l’associazione delle piccole e medie imprese (PMI) dell’industria metalmeccanica svizzera, solo una minoranza delle aziende affiliate — circa il 5%, ovvero 65 su 1.350 — ha manifestato l’intenzione di delocalizzare parte della produzione negli Stati Uniti, spiega il presidente dell’associazione, Nicola Tettamanti. E questo nonostante circa il 50% esporti verso il mercato americano, per lo più in misura limitata, spesso inferiore al 25% della produzione totale. «La stragrande maggioranza preferisce restare in Svizzera, sia per ragioni logistiche, sia per la disponibilità di competenze specializzate». Nonostante il clima di incertezza sia molto elevato, paragonabile a quello vissuto durante la pandemia o alla crisi finanziaria del 2009, emerge una chiara volontà a ragionare con una prospettiva di lungo termine, aggiunge Tettamanti. Anche perché avviare una linea produttiva all’estero può richiedere diversi anni. «Per le aziende che hanno già una presenza negli Stati Uniti, si tratta di potenziare strutture esistenti. Ben diversa, invece, è la situazione per una PMI che dovrebbe partire da zero». Sull’operazione in sé, Tettamanti non ha particolari critiche: «Non sono di principio contrario all’idea di ottimizzare costi e catene di produzione. Tuttavia, malgrado l’incertezza del momento, la stragrande maggioranza delle PMI non seguirà la tendenza dei grandi gruppi». Al netto di ciò, Tettamanti valuta positivamente l’impegno delle grandi multinazionali svizzere a investire negli USA. «Sul piano negoziale, questi investimenti contribuiscono a rafforzare la posizione del Consiglio federale durante la fase delle trattative. In definitiva, si tratta di un’opportunità che può portare benefici all’intero sistema economico svizzero, incluse le PMI». Allo stesso tempo, però, è importante che «qualcosa, in Svizzera, resti». Ancora Tettamanti: «Delocalizzare tutto e subito Oltreoceano può essere estremamente controproducente in quanto metterebbe a rischio l’intera catena del valore».

Determinanti le tempistiche

Restare con le mani in mano non è un’opzione neppure per Piero Poli, presidente di Farma industria Ticino: «Se la politica non interviene, anche il settore farmaceutico finirà per essere colpito dai dazi». Tuttavia, precisa Poli, il comparto è molto eterogeneo. «Di certo, le PMI basate in Ticino non potranno investire le somme di Novartis. D’altra parte, per alcune aziende, l’opzione della delocalizzazione potrebbe entrare in linea di conto»; le tempistiche però in questo caso sono fondamentali: «Nel settore farmaceutico, i tempi sono particolarmente lunghi a causa delle numerose autorizzazioni necessarie. Partendo da zero, possono servire almeno quattro anni prima di riuscire a immettere un prodotto sul mercato statunitense».