Assad ha perso i suoi protettori
La guerra che da un anno infiamma e insanguina il Medio Oriente ha investito anche la Siria. Molti analisti sostengono che questa conseguenza fosse ampiamente prevedibile e non si può dare loro torto. In Occidente , si è fatta confusione fra un conflitto congelato e un conflitto finito. Il presidente di Damasco, Bashar al-Assad, non ha mai firmato alcun accordo con i ribelli. Anzi, per dirla tutta, dopo oltre 10 anni di guerra civile, una volta cessato il fuoco, sono scattate persecuzioni in tutto il Paese.
La Siria si è trovata improvvisamente scoperta in quelli che erano i suoi appoggi principali. L’Iran è stato destabilizzato da una serie di operazioni di intelligence da parte di Israele. Il prezzo più caro della politica di Tel Aviv lo ha pagato l’organizzazione terroristica Hezbollah che, sempre più debole, non ha potuto mantenere l’impegno con il regime di Assad per quanto riguarda la fornitura di uomini, ma soprattutto di intelligence e informazioni vitali per il controllo del territorio. La Russia non è messa molto meglio. Mosca è impegnata da quasi tre anni in una guerra con l’Ucraina che sta drenando le risorse migliori, soprattutto per quanto riguarda gli alti gradi dell’esercito. Molti generali inviati in Donbass avevano partecipato alle operazioni in Siria a partire dal 2011. Non solo. Nel Paese era anche attiva la Wagner, la milizia di mercenari fondata da Evgenij Prigozhin e di grande importanza per il controllo del territorio. L’ex cuoco di Putin è morto nel 2023. L’organico della Wagner è stato assorbito dalle forze armate e anch’esso mandato in Ucraina.
Una serie di fattori, insomma, che hanno portato la cosiddetta opposizione siriana ad approfittare della situazione e tentare un’avanzata che per il momento le ha permesso di conquistare la città di Aleppo. Se si tratta di un’operazione singola o se può diventare una minaccia seria per il regime di Assad, lo scopriremo solo nei prossimi giorni.
Il ruolo di Ankara
Intanto, però, ci sono alcuni aspetti che destano preoccupazione. Per prima cosa, senza voler mostrare la benché minima simpatia per un regime sanguinario come quello di Assad, appoggiato da due dittature come la Russia e l’Iran, l’opposizione siriana è formata da molte anime e fra queste ci sono anche gruppi jihadisti legati ad Al Qaeda. Posto che difficilmente instaureranno una democrazia liberale, c’è il concreto rischio di una nuova diffusione del terrorismo nell’area.
Ma soprattutto, il Medio Oriente non è più quello di oltre 14 anni fa e non lo sono nemmeno gli interessi dei Paesi che gravitano nella regione. La stessa Siria, lo scorso anno, è stata riammessa nella Lega Araba senza troppo sforzo, in un evidente atto di riabilitazione del presidente Assad che, nel frattempo, ha ripreso le relazioni diplomatiche con la Giordania, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Alcuni commentatori ritengono che Damasco potrebbe rivolgersi a questi «amici ritrovati», per chiedere aiuto nel caso in cui le cose dovessero peggiorare.
Ma per il momento, l’asse Siria-Russia-Iran sembra tenere. Mosca ha ribadito più volte il proprio sostegno ad Assad e non potrebbe essere altrimenti, viste le relazioni storiche fra i due Paesi e il fatto che la Siria è la finestra del Cremlino sul Medio Oriente. I rapporti con l’Iran sono più recenti e discontinui, ma non bisogna dimenticare che Teheran è determinata a mantenere le sue zone di influenza, anche perché il contrario significherebbe subire un ulteriore downgrade che una potenza regionale come la Repubblica Islamica non può permettersi. E vedere Damasco passare sotto la protezione del blocco sunnita sarebbe l’ipotesi peggiore. C’è poi la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che in questa crisi ha una posizione molto particolare e che per molti anni è stata protettrice e finanziatrice dei gruppi jihadisti presenti nell’opposizione siriana. Fonti governative di Ankara hanno confermato al Corriere del Ticino che la Mezzaluna sta seguendo con particolare attenzione la situazione e che sta mettendo in campo tutte le risorse necessarie per evitare l’escalation. Alla fine, che la situazione degeneri, non conviene per primo a Erdogan. Per quanto aspirante campione dell’Islam sunnita e dei Fratelli Musulmani, lui stesso ha abbandonato da tempo il sogno di vedere Assad costretto alla fuga anteponendo priorità regionali, come una maggiore influenza nelle regioni del nord della Siria dove di fatto ha instaurato un protettorato e soprattutto l’indebolimento dello YPG, il ramo siriano del PKK, l’organizzazione militare separatista curda. In più, una nuova fase della guerra civile, per Ankara significherebbe una nuova maxi ondata di rifugiati, proprio quando Erdogan stava cercando di rimpatriare una parte degli oltre 3 milioni che stazionano sul territorio turco.
In ultimo, il perdurare degli scontri potrebbe essere un’altra possibile occasione di un confronto indiretto fra Stati Uniti e Russia, proprio quando mancano poche settimane all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. L’Iran ha dichiarato che la presenza di terroristi sul suolo siriano è colpa di Washington. E la Repubblica Islamica, dopo la Cina, è la più grande ossessione di Trump.