L'intervista

«Cina e USA? A volte il dialogo fra superpotenze viaggia su binari non ufficiali»

Kang Kyung-wha, ex ministra degli Esteri sudcoreana e attuale presidente e CEO di Asia Society, ci ha concesso un'intervista nell'ambito dell'annuale conferenza State of Asia – Con lei abbiamo parlato dei rapporti fra Washington e Pechino, ma anche delle tensioni fra Seul e Pyongyang, della guerra in Ucraina e di come migliorare la comunicazione Occidente-Oriente
© André Hengst / Asia Society Switzerland
Giacomo Butti
01.12.2024 06:00

È passato un mese dalla vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi, e il mondo, ancora, deve capire come il nuovo (vecchio) leader cambierà l'America e, soprattutto, l'approccio di essa verso l'esterno. Incentrata sulla crescente influenza dell'Est, l'annuale conferenza State of Asia, andata in scena a Zurigo, non poteva non dedicare un focus particolare all'impatto delle elezioni americane sul continente asiatico e sui rapporti fra Occidente e Oriente. 

Presenti all'evento, abbiamo avuto l'occasione di intervistare Kang Kyung-wha, ex ministra degli Esteri sudcoreana e attuale presidente e CEO di Asia Society. Con lei abbiamo parlato del futuro delle relazioni USA-Cina, ma anche di diritti umani e prospettive sociali in Asia.

Dottoressa Kang, partiamo dall'inizio. Che cos'è Asia Society, qual è la sua missione?
«Al momento della sua fondazione, avvenuta a New York nel 1956 su iniziativa di John D. Rockefeller III, la missione di Asia Society era quella di educare gli americani sull'Asia. Rockefeller, innamorato del continente (aveva viaggiato in Giappone, Cina, India e Corea), si era reso conto della necessità, per le genti, di imparare a capirsi meglio per evitare un altro conflitto mondiale come quello appena conclusosi. Così creò questa istituzione, che da allora si è evoluta. Oggi, grazie alla nostra rete globale, grazie alle sedi presenti in tutto il mondo, possiamo portare ovunque dialogo e comprensione: una missione, a mio avviso, ancora più importante in questi giorni in cui le relazioni tra Paesi sono sempre più difficili. Di recente gran parte del nostro lavoro ha riguardato Washington e Pechino. La nostra imparzialità ci permette di godere della credibilità di tutte le parti coinvolte, di offrire una piattaforma di dialogo inclusiva in cui tutti i punti di vista possono essere espressi. Il nostro pilastro artistico e culturale (Rockefeller donò 300 opere d'arte asiatica all'organizzazione, ndr) è uno strumento in più per avvicinare i Paesi e i popoli».

Se si parla di Stati Uniti, non si può evitare l'argomento delle ultime settimane: la vittoria di Trump nelle elezioni americane.
«L'aspetto sconvolgente di queste presidenziali è come non ci sia stata storia. I risultati erano chiari dall'inizio, mentre molti si aspettavano giorni di contestazioni, e perfino violenza politica, caos. Nulla di tutto ciò: oggi Trump si sente molto fiducioso per i risultati ottenuti e quindi presenterà il suo programma con altrettanta fiducia. Questo esito ha spinto i Paesi asiatici a un'accelerazione nelle riflessioni sulle opzioni politiche a disposizione e su come affrontare la seconda amministrazione Trump. Nel suo primo mandato, Trump ha iniziato su buone basi con la Cina, ma poi è rapidamente entrato in una guerra commerciale, dettata dai dazi, e ha finito per trovarsi in una situazione molto difficile, continuata sotto l'amministrazione Biden. Penso che la feroce competizione e la rivalità che contraddistinguono le relazioni USA-Cina probabilmente rimarranno. Ma sappiamo anche che Trump è un uomo d'affari volto a una logica transazionale. Se c'è qualcosa che potrà ottenere come vittoria immediata, probabilmente sarà disposto a fare accordi. Per quanto riguarda Pechino, invece, si sa che i cinesi pensano a lungo termine: tradizionalmente lo hanno sempre fatto. Tanto del loro punto di vista emergerà nelle prossime settimane, con l'avvicinarsi dell'insediamento di Trump».

L'amicizia fra Mosca e Pyongyang preoccupa anche la Cina: rischia di indebolire l'influenza di Pechino sulla regione
Kang Kyung-wha, presidente di Asia Society

Fra il 2017 e il 2021, mentre Trump era presidente, è stata ministra degli Esteri in Corea del Sud. Come vede l'amicizia, sempre più forte, fra Kim e Putin, e le crescenti tensioni fra Seul e Pyongyang?
«I legami militari tra Russia e Corea del Nord si sono fatti stretti con la guerra in Ucraina. Mosca aveva bisogno di sostegno e si è rivolta a Pyongyang, che invece cercava un amico. E ora c'è questa incredibile cooperazione in cui la Corea del Nord sta inviando le sue truppe in Ucraina. In un solo colpo, le dinamiche di sicurezza in Europa sono state direttamente collegate a quelle dell'Asia nordorientale. Penso che sia discutibile l'effetto che le truppe nordcoreane avranno in guerra, ma il caso è fonte di grande preoccupazione per i Paesi asiatici della regione. Che cosa sta ricevendo la Corea del Nord in cambio? È chiaro che Pyongyang, per l'invio di soldati nordcoreani in Russia, debba aver chiesto a Mosca un contributo altrettanto grande (negli ultimi giorni, il segretario generale della NATO Mark Rutte ha dichiarato che «non bisogna essere ingenui» riguardo al sostegno del Cremlino al programma nucleare nordcoreano, ndr). Questo, a mio avviso, è un problema di sicurezza per il Giappone, la Corea, l'attuale amministrazione statunitense, ma anche per la seconda amministrazione Trump. Ed è anche una preoccupazione per la Cina. Pechino vuole, nelle sue periferie – compresa la penisola coreana –, stabilità. Ed è per questo che ha sostenuto il regime nordcoreano anche sotto le pesantissime sanzioni che hanno colpito Pyongyang negli ultimi anni. Sui recenti sviluppi con Mosca, la Cina è stata molto silenziosa, ma non può sentirsi a proprio agio mentre Russia e Corea del Nord, sin qui entrambe molto dipendenti da Pechino, diventano migliori amiche, con un conseguente indebolimento dell'influenza cinese».

Alcuni analisti definiscono il rafforzarsi, fra Paesi asiatici, di queste relazioni, anche militari, come l'emergere di un polo di potere alternativo e contrapposto a quello occidentale.
«Il fatto che la Corea del Nord sia ora dalla parte della Russia, dal punto di vista di Putin è una buona cosa. Ma non mi sento a mio agio nel definire Russia, Cina, Corea del Nord e Iran un polo alternativo, un asse di resistenza. Considerarli come una sorta di alleanza è probabilmente fuorviante. Il concetto di alleanza prevede, in sostanza, che i Paesi implicati condividano le loro preoccupazioni e le loro attività in materia di sicurezza. Ma nel caso asiatico non esiste un'alleanza simile alla NATO. C'è una forma di sostegno reciproco, certo, ma non significa che tutti agiscano con lo stesso obiettivo. Per questo penso sia più corretto definire queste relazioni come "matrimoni di convenienza". Pensare a queste potenze come a un unico gruppo, un'alleanza, impedisce un approccio di politica estera efficace nei confronti di ciascuna di esse».

In questi anni si è a lungo parlato della necessità di trovare una "pace giusta" per l'Ucraina. Se un eventuale accordo dovesse invece fare concessioni alla Russia, la guerra voluta dal Cremlino rischia di incoraggiare iniziative simili in Asia?
«Devo credere che le due grandi potenze, Stati Uniti e Cina, non vogliano la guerra. È chiaro a tutti che se ci fosse uno scontro tra i due, sarebbe una terza guerra mondiale. Penso che le due grandi potenze vogliano gestire la "fredda" stabilità attorno a questi punti critici: Taiwan e la penisola coreana. In parte, anche, nel Mar Cinese Meridionale, sebbene qui le attività cinesi siano molto più aggressive nelle zone grigie. Credo che, soprattutto dopo il vertice Biden-Xi andato in scena l'anno scorso, che le cose stiano proseguendo in questa direzione. Le due parti hanno gestito la situazione in modo che non sfuggisse di mano: spero che la nuova amministrazione Trump adotterà la stessa linea. Sappiamo che Trump non ama le guerre, non ama mandare soldati americani all'estero, e se questa è la sua convinzione di fondo, allora possiamo sperare che le difficili relazioni con la Cina vengano gestite».

È probabile che il conflitto fra Russia e Ucraina si cristallizzi in una guerra fredda come fra Corea del Nord e Corea del Sud. Ma attenzione: i coreani sono un unico popolo
Kang Kyung-wha, presidente di Asia Society

Corea del Sud e Corea del Nord sono da decenni bloccate in una guerra fredda. Che probabilità ci sono che un cessate il fuoco sul fronte russo-ucraino porti a una situazione simile?
«Mi sembra molto probabile. Ma va anche detto che la situazione, nella penisola coreana, ha un elemento di complicazione in più nel fatto che la DMZ (la zona demilitarizzata, ndr) divide un unico popolo, mentre Russia e Ucraina sono Paesi e popoli diversi. Forse, se un simile stallo dovesse concretizzarsi al fronte, ucraini e russi si accontenteranno di convivere, per un lungo periodo, in questa situazione. Nella penisola coreana non ci siamo mai accontentati di ciò: c'è un'enorme spinta da parte dell'opinione pubblica per un armistizio e un accordo di pace che permetta alle due parti di interagire e coesistere pacificamente. La storia di quella divisione è quindi molto diversa da quella che si verificherà nel caso della fine della guerra in Ucraina».

Ma la retorica utilizzata da Kim punta, sempre più, a definire Corea del Nord e Corea del Sud come due Paesi e due popoli diversi.
«Sì, in questi anni Kim ha cercato di trasmettere un messaggio contrario all'unificazione, che vede la Corea del Sud come un Paese diverso con il quale non si può lavorare o trattare, il nemico numero uno. Penso dunque che un periodo di fredda ma stabile coesistenza sia l'aspettativa realistica per la penisola. E dato che la Corea del Nord ha ritrovato l'amicizia con la Russia, probabilmente non ha voglia di tornare al tavolo delle trattative, non solo con i sudcoreani, ma anche con gli americani».

Parliamo di società. La percezione dell'Occidente fra la popolazione dei Paesi asiatici è cambiata in questi anni di guerra?
«Gli scambi tra cittadini si sono molto ridotti: meno persone vengono negli Stati Uniti e ancora meno vanno in Cina. Se la retorica del governo definisce l'altro Paese un nemico, è molto difficile che le persone provino un senso di sicurezza e di gioia nel recarvisi. La missione di Asia Society è proprio quella di mantenere scambi tra persone a tutti i livelli, anche attraverso programmi culturali e di istruzione, per cercare di dialogare. Alcuni di questi tentativi si sono conclusi senza alcun risultato, ma altri hanno portato a un reale progresso nelle relazioni tra i governi».

Può farci un esempio?
«Data la confidenzialità, non posso fornire i dettagli, ma attualmente stiamo facilitando un dialogo di diplomazia parallela su "binario 1.5" (conversazioni che includono un mix di funzionari governativi, presenti in veste non ufficiale, ed esperti non governativi, ndr) fra statunitensi e cinesi, con incontri alternati a New York e Pechino. Stiamo promuovendo anche una discussione sulle differenti tipologie di sostegno ai Paesi in via di sviluppo, sia esso tramite APS (aiuto pubblico allo sviluppo) o assistenza tecnica, che vigono negli Stati Uniti e in Cina. Ci siamo resi conto che si tratta di idee molto diverse, ma è molto utile discutere dei due approcci, quello cinese e quello statunitense, al mondo in via di sviluppo. Le discussioni sono già, di per sé, rivelatrici, ma a volte – quando si porta l'attenzione su questi dialoghi – si può davvero avere un impatto sulla politica ufficiale».

In Corea del Sud, dopo grandi progressi, lo status delle donne ha subito notevoli passi indietro
Kang Kyung-wha, presidente di Asia Society

Anche i media possono svolgere un ruolo nell'avvicinare – o allontanare – i popoli. Come uscire da una visione eurocentrica?
«È una sfida, perché i media occidentali sono dominati dall'inglese, mentre in molti Paesi asiatici – come Corea, Cina, Giappone – questa lingua non è tradizionalmente parlata bene, sebbene fra i giovani si stiano dimostrando più articolati. È difficile, quindi, far conoscere le nostre storie in Occidente. Non si può fare nulla su questo dominio dell'inglese: lo si accetta e si cerca di sfruttarlo al meglio, ad esempio con i canali in lingua inglese nati in Cina. Anche se questi, dal punto di vista occidentale, sono spesso considerati solo propaganda».

Nel periodo trascorso alle Nazioni Unite, ha presieduto due sessioni (2004 e 2005) della Commissione sullo status delle donne nel mondo. Com'è cambiata la situazione in Asia, e in Corea del Sud in particolare, in questi anni?
«Non in bene. Dopo aver fatto grandi progressi, lo status della donna nei Paesi asiatici ha subito, negli ultimi anni, notevoli passi indietro. Io sono divenuta ministra degli Esteri solo perché il presidente di allora era determinato ad ampliare lo spazio per le donne: voleva donne in posizioni ministeriali forti, in incarichi che tradizionalmente vanno agli uomini. Servono leader come lui, pronti a rischiare il proprio capitale politico, per permettere grandi progressi per le donne. E bisogna, soprattutto, perseverare. La lotta per l'uguaglianza di genere è uno sforzo civilizzante che deve rimanere costante. In Corea del Sud non è stato così e oggi ci sono molte meno donne in spazi pubblicamente visibili rispetto a qualche anno fa. Le donne devono affrontare molti elementi culturali di discriminazione sul posto di lavoro e a casa. Perché affrontare le difficoltà derivanti dall'avere un figlio e crescerlo quando è chiaro che non si avrà il pieno sostegno del coniuge, dei colleghi e del proprio datore di lavoro? Questa situazione fa parte dei motivi della bassa fertilità in Corea del Sud».

Nata a Seul nel 1955 da padre originario di Pyongyang, Kang Kyung-wha ha studiato fra Corea del Sud e Stati Uniti. Esperta di comunicazione, ha lavorato per il Korean Broadcasting System, servizio pubblico di radiotelevisione, prima di entrare a far parte – a fine anni Novanta – del ministero sudcoreano degli Affari esteri. Qui ha ricoperto diversi ruoli, da interprete a senior advisor. Fra il 2001 e il 2005 ha lavorato alla missione permanente della Repubblica di Corea alle Nazioni Unite, presiedendo la Commissione sullo status delle donne nella 48. e 49. sessione. Nel 2006 viene nominata vice Alto Commissario per i diritti umani dal segretario generale ONU Kofi Annan. Negli anni seguenti, e sotto tre segretari consecutivi (Annan, Ban Ki-moon, António Guterres), continua a ricoprire ruoli chiave alle Nazioni Unite. Fra il 2017 e il 2021 ricopre, in Corea del Sud, il ruolo di ministra degli Esteri: è la prima, in queste vesti, a visitare Pyongyang in occasione del vertice intercoreano. Da aprile 2024 è presidente e CEO di Asia Society, organizzazione che si occupa di avvicinare il mondo all'Asia.