«Come se ne esce? Non esiste una soluzione militare a un problema politico»
Prima, il raid nel cuore di Beirut. Con l’uccisione del numero due di Hezbollah Fuad Shukr. Poche ore più tardi, un’altra “eliminazione mirata”. A Teheran, dove a morire è stato il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. Due nemici di Israele. Due figure, di riflesso, vicine all’Iran. Come interpretare quest’ultima, doppia svolta nelle vicende del Medio Oriente? E davvero, ora più che mai, siamo vicini a una cosiddetta guerra totale nella regione? Per capirne di più ci siamo rivolti a Lorenzo Kamel, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Torino.
Professore, riavvolgiamo
il nastro innanzitutto: nel giro di poche ore, l’asse anti-Israele ha perso due
figure chiave. Teheran, dunque, reagirà in maniera diretta, come lo scorso
aprile, abbandonando la sua strategia di guerra per procura?
«La rappresaglia iraniana dopo l’attacco
all’Ambasciata di Damasco, avvenuta lo scorso aprile, è stata volutamente
limitata negli obiettivi e circoscritta alla volontà di ripristinare una
capacità di deterrenza. In passato, l’omicidio del generale Qasem Soleimani e
l’uccisione di numerosi scienziati nucleari iraniani, per limitarsi a due
esempi, non hanno spinto Teheran a intervenire in maniera più strutturata e
diretta. Non sarà l’omicidio di Ismail Haniyeh, per quanto gravido di
conseguenze, a cambiare lo scenario. Le autorità iraniane risponderanno a
quello che percepiscono come un grave smacco, ma sanno bene che Netanyahu ha
interesse, non ultimo per una questione di personale sopravvivenza politica, a
innescare una escalation che potrebbe sfociare in una guerra regionale,
trascinando dentro anche gli Stati Uniti, finalizzata a imporre un nuovo
equilibrio che possa ripristinare lo status e la libertà di manovra di Israele».
A proposito di Haniyeh:
era, soprattutto, il volto politico dell’organizzazione. Quali le sue origini?
«Haniyeh, considerato da molti
come un interlocutore più moderato e pragmatico rispetto ai leader dell’ala
armata di Hamas, era stato a lungo vicino a uno dei principali fondatori di
Hamas, Ahmed Yassin. Quest’ultimo, nato nel 1936, aveva 12 anni quando venne
espulso dalla sua casa ad al-Jura, un villaggio che – prima di essere raso al
suolo dall’esercito israeliano – era sito nelle vicinanze di Ashkelon. La sua
famiglia venne trasferita nel campo profughi di al-Shati, sulla costa della
striscia di Gaza. Anche la famiglia del futuro capo politico di Hamas venne
espulsa dall’area dell’odierna Ashkelon e finì nel campo profughi di al-Shati,
dove nel 1962 nacque Ismail Haniyeh».
Quali ripercussioni
avrà la sua morte sui negoziati per il rilascio degli ostaggi e un cessate il
fuoco a Gaza?
«L’omicidio di Haniyeh, che si
era mostrato sorridente dopo l’attentato dello scorso 7 ottobre, fa guadagnare
a Netanyahu diverse settimane, se non mesi. In questo lasso temporale non ci
sarà alcuna reale aspettativa per il raggiungimento di un cessate il fuoco, che
avrebbe portato anche al rilascio degli ostaggi israeliani ancora in vita. Il
loro rilascio rappresenta un’assoluta priorità. Vorrei, al contempo, ricordare
che almeno 5.900 palestinesi sono in “administrative detention”: detenuti senza
alcun processo né accusa. Non di rado le loro famiglie non sanno nulla di loro
per mesi o anni e la Croce Rossa ha più volte denunciato il fatto che viene loro
impedito di visitarli. Tale situazione è peggiorata in modo esponenziale a
seguito dell’attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, ma era ben presente
anche prima di allora».
Qual è la situazione
a Gaza?
«Di Gaza, dove continuano i
massacri e la popolazione, composta per metà da bambini, è soggetta a epidemie
devastanti, si parla sempre meno. Le Nazioni Unite hanno documentato che nessun
altro conflitto armato del ventunesimo secolo ha conosciuto un impatto così
devastante su una popolazione in un arco di tempo così breve. L’86% della
Striscia di Gaza è interessata da ordini di evacuazione e larga parte dei
palestinesi non ha un habitat nel quale tornare. Ciò è parte di una precisa e
ben documentata strategia».
E in Cisgiordania?
«La violenza dei coloni, visibile
da decenni, non potrebbe esistere senza uno Stato che la consente e che trae
giovamento dalla situazione in loco. Al di là di qualche frase di circostanza,
non sembra che i nostri Paesi, in Europa, siano disposti a esercitare pressioni
concrete per cambiare la situazione, come per contro avviene in Crimea e in
altri contesti».
È stato sottolineato
da più parti, in queste ore, come Israele difficilmente potrebbe sostenere uno
sforzo bellico a Gaza e, contemporaneamente, a nord contro Hezbollah. Dovremo
allora aspettarci più operazioni chirurgiche e di intelligence, come quelle
appena consumatesi, per eliminare obiettivi specifici?
«Le operazioni “chirurgiche”
coinvolgono molto spesso anche numerosi civili e non di rado si accompagnano
all’uso di bombe al fosforo bianco, come avviene nel sud del Libano: intere
aree sono state rese inabitabili a causa dell’inquinamento del suolo che ne
deriva. Centinaia di migliaia di persone, nel nord di Israele e nel sud del
Libano, sono state costrette a sfollare. Ciò premesso, il 99% delle armi
importate da Israele proviene da due Paesi: Stati Uniti e Germania. La capacità
di sostenere lo sforzo bellico dipenderà dall’esito delle elezioni di novembre
negli Stati Uniti e, più in generale, dalla volontà di Washington e Berlino di
continuare o meno a fornire carta bianca alle autorità israeliane. La Corte
internazionale di giustizia (CIG) e la Corte penale internazionale (CPI) si
sono espresse in termini chiari, ma potrebbe non bastare».
Ultimo aspetto: la
Cina, venendo alle grandi potenze, ha subito condannato l’uccisione di Haniyeh.
Qual è e quale potrebbe essere il ruolo di Pechino rispetto alla crisi attuale?
«Esistono legami millenari tra la
Cina e i cosiddetti Paesi arabi. In un hadith del profeta Maometto, che è
contestato da alcuni studiosi musulmani, viene suggerito di cercare “la
conoscenza anche se in Cina, perché la ricerca della conoscenza è incombente su
ogni musulmano”. Pechino lavora a una de-escalation. Una ulteriore
destabilizzazione regionale avrebbe infatti un impatto su suoi scambi economici
e commerciali. A gennaio 2023 Arab Barometer ha condotto un sondaggio in dieci Paesi
del Medio Oriente e del Nord Africa. In nove di quei Paesi, tutti tranne il
Marocco, la Cina è risultata essere più popolare rispetto agli Stati Uniti. Le
autorità cinesi ne sono consapevoli e continueranno a fare il possibile per
trarne dei vantaggi economici e politici».
Come se ne esce,
allora?
«Non esiste una soluzione
militare a quello che è un problema politico. Finché le varie parti in causa
non si convinceranno di questo, il rischio di un conflitto regionale o anche
extraregionale sarà sempre più probabile. L’idea di guerra totale, fino alla
resa “senza condizioni”, è un prodotto della tragica storia delle guerre
mondiali, quelle che hanno causato il maggior numero di morti nella storia
dell’umanità. La storia, anche di quest’ultimo secolo, mostra numerosi esempi
di guerre conclusesi senza vincitori e vinti: dalla guerra Russo-Giapponese del
1904 a quella di Corea del 1953, passando per il Vietnam, le isole Falkland, la
guerra Iran-Iraq e quella in Bosnia. Il nostro ruolo di intellettuali e
operatori dei media penso sia anche quello di decostruire queste visioni
assolutiste, da sempre foriere di catastrofi epocali».