La storia

Donald Trump e le relazioni pericolose: quell'invito a Mosca del 1987

Un documentario affronta i rapporti e i legami storici fra l'attuale presidente degli Stati Uniti e le autorità russe – Di ritorno dall'Unione Sovietica, il tycoon pubblicò una lettera sui giornali: «Washington deve smettere di difendere Paesi che hanno i mezzi per difendersi da soli»
Donald Trump stringe la mano a Mikhail Gorbachev nel 1987 a Washington. © Reuters
Marcello Pelizzari
15.03.2025 11:30

La domanda, di per sé, è rimasta inevasa. Perché Donald Trump sembra sposare la narrazione del Cremlino o, se preferite, mostra una certa condiscendenza nei confronti di Vladimir Putin? Il passato e la storia, spesso, aiutano. Un documentario, in questo senso, è essenziale per leggere e comprendere il presente. Si intitola Opération Trump, les espions russes à la conquête de l’Amérique, è stato diffuso lo scorso ottobre in televisione ed è stato realizzato dal giornalista francese Antoine Viktine. Il tema? I rapporti fra l’attuale presidente degli Stati Uniti e la Russia.

Il documentario tratta temi scottanti, quali l’influenza russa sulla politica americana e, nello specifico, i rapporti fra la destra repubblicana e il Cremlino. Non solo, forte di testimonianze di vecchi agenti dell’FBI, della CIA e del KGB sovietico, Viktine fa luce, altresì, su una storia ai più sconosciuta: i rapporti di un giovane Trump, negli anni Ottanta, con le autorità sovietiche. Rapporti che, inevitabilmente verrebbe da dire, fecero finire il tycoon nel mirino dei servizi segreti russi. Nel mezzo, pure i rapporti fra il miliardario e alcuni membri della mafia russa.

Riavvolgiamo il nastro: nel 1981, in piena Guerra Fredda, il popolo americano elesse Ronald Reagan. Un repubblicano tutto d’un pezzo, apertamente ostile rispetto all’Unione Sovietica. Quella durezza, unitamente al dominio economico e militare di Washington, spinsero Mosca ad agire. Della serie: un conservatore duro e puro alla Casa Bianca? Una sciagura. Il KGB, allora, decise di intensificare le sue operazioni negli Stati Uniti. Cambiando, però, obiettivi. Scelse, nello specifico, la destra americana e influenti uomini d’affari. Fra questi, manco a dirlo, c’era Trump.

Nel documentario, questa strategia viene confermata dal generale Oleg Kalugin, a capo dell’intelligence del KGB negli Stati Uniti dal 1974 al 1990. «Gli uomini d’affari americani – dice nel film – erano molto importanti poiché avevano accesso alla tecnologia o, ancora, potevano vantare forti relazioni grazie alla loro situazione finanziaria». Le possibili prede, attenzione, dovevano avere determinate caratteristiche, come l’arroganza, l’egoismo, l’ambizione o, ancora, la vanità. Aspetti, questi, che tratteggiavano, allora come oggi, il carattere di Trump.

Il tycoon, nel 1983, era un promotore immobiliare deciso a farsi largo nel vasto mondo degli affari e, di conseguenza, desideroso di luce e riflettori. La costruzione della Trump Tower, nel cuore di Manhattan a New York, ultimata proprio quell’anno, gli garantì una forte presenza mediatica. Il suo impero, per contro, era minacciato dai tanti, troppi debiti. Così, sempre nel documentario, Kenneth McCallion, procuratore anti-mafia nella Grande Mela dal 1978 al 1992: «Trump aveva accumulato perdite con i suoi casinò e altre imprese. E, quindi, aveva bisogno di altre forme di finanziamento. All’epoca, gli oligarchi russi cercavano di diversificare i loro investimenti e Trump aveva bisogno di questi soldi». Per oligarchi, in realtà, si intendono membri della mafia russa. Persone con cui Trump, secondo il documentario, si trovò in affari. Ancora McCallion: «Nella Trump Tower, circa un terzo degli appartamenti erano stati venduti a persone legate alla criminalità organizzata russa. Pagarono gli appartamenti in contanti. Con sacchi di banconote».

Queste relazioni pericolose, in sostanza, furono lette come un invito dal Cremlino. Del tipo: infiliamoci. Trump, veniamo dunque a sapere, venne così avvicinato dalla figlia dell’ambasciatore dell’Unione Sovietica negli Stati Uniti. Nel 1987, ancora, Trump venne invitato a Mosca da un’agenzia turistica controllata dal Cremlino (il richiamo alla serie televisiva The Americans, qui, è piuttosto forte). Un invito contenente una promessa: la costruzione di un hotel nella capitale dell’Unione Sovietica. Serguei Jirnov, ufficiale del KGB dal 1984 e il 1990, ribadisce: «La regola d’oro è trovare qualcosa che ci possa legare in maniera positiva all’obiettivo».  

Trump, smanioso di poter costruire una Trump Tower anche a Mosca e, a suo modo, di contribuire alla distensione fra le due superpotenze, accettò l’invito di buon grado. Di qui l’ipotesi, piuttosto concreta invero, che il KGB abbia sfruttato l’occasione per monitorare da vicino Trump e, parallelamente, costruire un vero e proprio dossier. Un dossier (anche) compromettente. Di sicuro, tutti gli stranieri che varcavano i confini dell’Unione Sovietica, in particolare coloro che venivano dai Paesi NATO, finivano sotto stretta sorveglianza.

All’epoca, i servizi informativi russi confidavano che, a Washington, qualcuno potesse contrastare Reagan e fare gli interessi di Mosca. Una volta tornato negli Stati Uniti, Trump decise di sborsare 100 mila dollari per pubblicare una lettera aperta su tre, prestigiosi quotidiani americani. Una lettera che, nemmeno troppo velatamente, conteneva un invito. Rivolto direttamente agli Stati Uniti. Quale? Smettere di difendere Paesi che hanno i mezzi per difendersi da soli. Parole che, lette quarant’anni dopo e di fronte alla minaccia russa, suonano tanto attuali quanto sinistre.