L'intervista

«Donald Trump vittima e combattente, un’immagine potentissima»

L’attentato alla vita dell’ex presidente segnerà una svolta nella campagna elettorale, ma non solo – Ne parliamo con Mario Del Pero, professore di storia degli Stati Uniti a Sciences Po: «Biden e i democratici in un angolo»
© Gene J. Puskar
Paolo Gianinazzi
14.07.2024 20:00

Partiamo dall’attualità più stretta. Quale impatto avrà questo episodio sulla campagna elettorale? Storicamente, eventi simili, hanno aiutato i candidati «colpiti»?
«Perlomeno sul breve periodo l’impatto andrà tutto a vantaggio di Trump e dei repubblicani. E metterà ancor più Biden e i democratici in un angolo. Per questi ultimi sarà più difficile fare campagna negativa contro Trump, presentandolo come una minaccia per la democrazia, come un fomentatore di violenza. Messaggi negativi contro Trump, che sappiamo essere mobilitanti per una parte di elettorato, e che ora saranno meno spendibili. Oltre a ciò, l’attentato sembra aver validato alcuni elementi della retorica politica di Trump, che si presenta da tempo come una vittima dello Stato profondo, delle istituzioni, della Giustizia, di una politica corrotta e di un establishment che usa tutti i mezzi possibili per impedirgli di tornare al potere. Questa narrazione vittimista esce rafforzata dall’attentato. Ma, in questo contesto, accanto al Trump vittima c’è anche il Trump combattente, che si allontana e si divincola dalla morsa degli agenti che gli fanno scudo, esponendo il suo corpo alla possibilità di essere colpito ancora, con il volto insanguinato, il pugno al cielo, che urla e arringa il popolo, invitandolo a combattere. Questa è un’immagine, elettoralmente parlando, potentissima. A maggior ragione in un contesto in cui questo vigore mascolino si contrappone all’anziana fragilità del suo avversario. Trump vittima e Trump combattente stanno dunque assieme e si rinforzano uno con l’altro. Sarà quindi una risorsa elettorale che i repubblicani sfrutteranno con forza. E una risorsa che permetterà anche di nascondere le responsabilità di Trump stesso per l’imbarbarimento politico e per l’aumento della violenza politica che c’è stato negli ultimi 10 anni. Imbarbarimento e violenza per cui i repubblicani hanno la loro bella fetta di responsabilità».

Quattro presidenti uccisi e molti altri tentativi: perché negli USA eventi simili sono così frequenti?
«Da storico posso dire che la violenza è un tratto che contraddistingue l’esperienza democratica statunitense. Senza entrare troppo nei dettagli, possiamo dire che la violenza è quasi un elemento naturale della politica americana. Di fatto, però, negli ultimi 10-15 anni c’è stato un ritorno della violenza politica, che si accompagna all’imbarbarimento dello scontro politico e alla polarizzazione, alla spaccatura che c’è in questa America. Perché se l’avversario cessa di essere un semplice avversario politico e diventa una minaccia esistenziale per la democrazia, come viene dipinto da entrambe le parti, allora tutti i mezzi diventano leciti per fermare questo pericolo. Diventa un dovere patriottico spiegare questa violenza contro una simile minaccia. Molti degli assalitori del 6 gennaio 2021 pensavano di compiere il loro dovere patriottico per impedire una frode elettorale e ripristinare una democrazia rubata. Ora, sappiamo poco dell’attentatore, ma è immaginabile che in questo contesto di polarizzazione il ragazzo abbia pensato fosse necessario compiere un sacrificio estremo. C’è un legame tra violenza politica e polarizzazione politica. E c’è un legame tra la parabola storica della democrazia americana e la violenza stessa».

Polarizzazione vuole dire che si creano due campi politici, ma anche culturali e sociali, contrapposti e caratterizzati da bassissima permeabilità reciproca. Due bolle che dialogano sempre meno l’una con l’altra e in cui c’è un travaso sempre più limitato di voti

Come si spiega, dunque, l’attuale clima di violenza politica negli USA? Quali sono i fattori principali che hanno creato questo clima?
«Polarizzazione vuole dire che si creano due campi politici, ma anche culturali e sociali, contrapposti e caratterizzati da bassissima permeabilità reciproca. Due bolle che dialogano sempre meno l’una con l’altra e in cui c’è un travaso sempre più limitato di voti. Polarizzazione politica, delegittimazione dell’avversario e violenza sono dunque elementi variabili, ma dipendenti gli uni dagli altri. E mille indicatori, non solo quello del voto, ci mostrano quanto polarizzata e fratturata sia oggi la società statunitense».

Come se ne esce? Come mitigare questo clima di grande violenza?
«Se avessi la risposta la venderei al migliore offerente. Scherzi a parte, è richiesto un surplus di responsabilità istituzionale da parte dei vertici. Perché se il messaggio che arriva dai vertici è radicale, estremo, crudele e violento, esso contribuisce ad avvelenare la democrazia. Come quello veicolato da Trump, che insulta gli avversari, attribuisce nomignoli molto volgari ai suoi avversari. Un Trump che dispiega questi strumenti, questo lessico e questa retorica, contribuisce ad avvelenare i pozzi della democrazia americana che sono già avvelenati. Il corpo della democrazia americana è debole e ammalato. È una democrazia anche vecchia. La più vecchia tra quelle esistenti. Anacronistica in alcuni suoi tratti: si pensi al sistema elettorale. Ecco, in questo Paese in difficoltà, alcune figure politiche – e ci metto anche Trump – hanno iniettato ulteriore veleno e tossicità. Se ne esce quindi recuperando responsabilità. Ma pure recuperando la capacità di dialogo. Un processo che dovrebbe partire anche dal basso, dalle comunità, dal vicino di casa che la pensa in maniera opposta a noi. Ma penso sia un processo complesso. E tendo a non essere ottimista sulla sua realizzabilità. A maggior ragione in un’epoca in cui i nuovi strumenti della comunicazione politica, i social media, permettono a chi lo vuole di approfittare di questa tossicità. E anche di esasperarla».

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