La Terra complessa

«Ecco come Israele ha occupato i territori della Palestina storica»

Nella terza puntata della rubrica del Corriere del Ticino sulla storia di Israele, Palestina e Medio Oriente partiamo dalle incursioni dei fedayyin palestinesi per arrivare alla guerra dei sei giorni
Giacomo Butti
05.12.2023 11:00

Medio Oriente. Dal 7 ottobre, dai sanguinosi attacchi di Hamas ai kibbutz israeliani, il tema è ospite di tutti i media. Israele, Gaza, Cisgiordania. Netanyahu, IDF, Hamas, Fatah e Abu Mazen. E poi Libano, Hezbollah, gli ayatollah iraniani. Nomi di luoghi, gruppi, personaggi, si rincorrono. Ma tutti, nessuno escluso, esistevano ben prima del 7 ottobre: abitavano una regione al centro, da decenni, di tensioni e scontri. Qual è la storia di Israele e della Palestina? Come si è arrivati a questa fatidica data? 

Per rispondere a simili domande in modo accurato, il Corriere del Ticino presenta la rubrica e l'omonimo podcast La Terra complessa. Con l'aiuto dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand, faremo un salto nel passato, ricostruendo in modo fattuale quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.

Articoli e contenuti audio, pubblicati a cadenza settimanale, sono disponibili a questo link. Buona lettura e buon ascolto!

Benoît Challand è professore di sociologia alla New School di New York. Già titolare della cattedra di Storia contemporanea all'Università di Friburgo, Challand ha insegnato anche alla New York University, alla Scuola Normale Superiore di Firenze e all'Università di Betlemme. Vanta numerose pubblicazioni sulla storia e società civile del Medio Oriente, alcune delle quali edite dalla Cambridge University Press.

Puntata 3 – Dai fedayyin palestinesi alla guerra dei sei giorni

Prof. Benoît Challand. © The New School
Prof. Benoît Challand. © The New School

Ci eravamo lasciati la scorsa puntata parlando della nakba, la catastrofe palestinese risultato della guerra di indipendenza israeliana del 1948. Possiamo ripartire da qui.
«Come già evidenziato, la guerra di indipendenza israeliana ha un effetto multiplo. Da una parte porta alla creazione dello Stato di Israele, il cui diritto a esistere viene riconosciuto da gran parte della comunità internazionale. Dall’altra, per i palestinesi si parla di una “nakba” (letteralmente, “catastrofe”). Quattrocento villaggi palestinesi sono distrutti, mentre sono 750.000 le persone che devono fuggire. Da questo momento comincia la presenza di profughi a Gaza: 160.000 palestinesi arrivano fra 1948 e 1949 nella Striscia. Prima della guerra vi abitavano soltanto 80 mila persone, con i profughi la popolazione supera quota 240 mila, per arrivare a 300 mila nel 1956. Nel dicembre 1948, poi, una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la risoluzione 194, decide che Israele deve permettere ai profughi palestinesi che vogliono farlo di tornare alle proprie case. Si tratta del cosiddetto “diritto al ritorno”, che viene menzionato dai palestinesi come un aspetto fondamentale, un riconoscimento internazionale della “catastrofe” del 47-48. E ancora oggi i palestinesi chiedono che questo diritto al ritorno sia concesso. Un aspetto interessante è che gli Stati Uniti, sempre identificati come i principali alleati di Israele, sono - fra il ’49 e il ’50 - l’unico Paese a fare pressione su Israele perché fosse permesso il rientro almeno a qualche migliaio di profughi. Una richiesta concessa, allora, dal governo israeliano per entrare nell'ONU, ma in linea generale, si è tuttavia sempre opposto al diritto al ritorno».

«È in questa fase che comincia una guerra di bassa intensità con operazioni condotte da soldati irregolari palestinesi, i cosiddetti fedayyin, in particolare attorno alla Striscia di Gaza, fenomeno di cui parleremo più avanti. Nel dicembre 1949 fa inoltre la sua comparsa un altro attore importante, l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite la cui missione è proprio aiutare i profughi palestinesi».

E qui, forse, può essere interessante fare un salto nel presente. A inizio novembre, a un mese dall’inizio del conflitto, erano già 100 i membri dell’UNRWA uccisi nella Striscia di Gaza nel corso di bombardamenti israeliani. Israele si era difeso dicendo che molti operatori dell’UNRWA sono, a loro volta, membri di Hamas. Che cosa ne pensa di questa affermazione?
«Pensiamo all’affermazione riguardante gli ospedali o le scuole di Gaza, che secondo il governo israeliano sarebbero stati tutti utilizzati dai terroristi di Hamas come basi militari. Queste sono accuse che Israele fa sempre dopo aver commesso un errore militare, colpendo obiettivi civili. Conosco personalmente questo fenomeno perché l’ho vissuto a Ramallah, durante la seconda intifada, quando più volte ho visto Israele intervenire immediatamente a livello mediatico per coprire un’azione che aveva fatto. L’UNRWA e tutti i suoi impiegati delle Nazioni Unite sono controllati e devono seguire un regolamento molto stretto sui propri contatti nella Striscia e ovviamente l’Agenzia per il soccorso dei rifugiati palestinesi, così come tutte le altre agenzie ONU, non si può permettere di dare risorse a Hamas o altre organizzazioni dichiarate terroristiche. Questa affermazione è una mera copertura israeliana. Rimangono le immagini drammatiche della popolazione che deve sfollare il quartiere di Gaza. Dove vanno? Nei posti che pensano essere sicuri come le scuole delle Nazioni Unite e gli ospedali. E purtroppo questi sono anche attaccati da Israele. Si apre dunque un discorso sulla proporzionalità nell'uso della violenza. Israele ha diritto all’autodifesa, ma secondo il diritto internazionale e umanitario può usare la violenza solo contro gruppi armati. Non può attaccare siti civili, ancora meno ospedali».

Operatori dell'URNWA affiliati a Hamas? Accuse che Israele fa dopo aver commesso errori militari, colpendo obiettivi civili

Chiudiamo la parentesi sull’UNRWA e torniamo agli anni ’50. Parlavamo delle operazioni intraprese dai fedayyin.
«Esatto. Man mano, dal ’50 in poi, i palestinesi si organizzano per attaccare Israele. Così cominciano queste famose incursioni dei fedayyin che portano a una risposta militare molto forte da parte di Israele. Si possono citare episodi vari. Nel ’53, ad esempio, nel corso di un’infiltrazione da Gaza verso Tel Aviv, vengono uccisi quattro israeliani. Israele risponde con un’incursione dell’Unità 101 (nella quale opera un soldato che diventerà molto famoso, Ariel Sharon) al villaggio di Qibya, Cisgiordania, dove vengono ammazzati 70 palestinesi. Altri episodi sono i massacri di ottobre 1956, poco prima della crisi di Suez, a Kfar Qasim, un piccolo villaggio in cui 47 contadini sono ammazzati perché accusati di aver ospitato fedayyin. O quelli del novembre ’56, a Khan Younis, dove si parla di almeno 275 palestinesi (civili o armati) uccisi e di un altro centinaio a Rafah. La giustificazione ricalca un po’ quella vista in questi giorni. Israele accusa le comunità palestinesi colpite di essere rifugio dei fedayyin».

Come ha già fatto notare, queste violenze reciproche si sono svolte nell’ambito della crisi di Suez, avvenuta a fine 1956. Come si svolge questo conflitto internazionale?
«In generale viene rappresentato come l'ultimo momento dell'imperialismo e del colonialismo britannico e francese nel Medio Oriente. Come già visto nella scorsa puntata, l'Inghilterra perde l'India nel 47, e allo stesso tempo abbandona la Palestina. Ma negli anni ’50 c’è un ultimo tentativo di riprendere parte del controllo dei suoi “possedimenti coloniali” nel Medio Oriente. Nel 1956, il Canale di Suez, di proprietà francese e britannica, viene nazionalizzato da Nasser, un militare egiziano salito al potere nel 1952. Questo porta alla creazione di un accordo tripartito: un’alleanza fra francesi, britannici e israeliani per il controllo di Suez. Israele ed Egitto non avevano firmato un armistizio nella guerra del ’48 e ’49, quindi nel ’56 gli scambi di fuoco nel canale erano comuni. Con la scusa di aver subito un attacco egiziano, dunque, Israele doveva – secondo l’accordo – attaccare il canale, mentre il giorno seguente Francia e Regno Unito dovevano proporsi come intermediari per imporre una pace con l’invio di paracadutisti e riprendere il controllo di Suez. Le operazioni cominciano a fine ottobre ’56. Il problema è che i francesi e i britannici non hanno calcolato che il momento era ormai cambiato. Elezioni americane, crisi di Budapest e alta tensione nella Guerra fredda rendono poco propizio il momento. Entrambi i blocchi, americano e sovietico, dicono quindi a Francia, Inghilterra e Israele di ritirare le proprie truppe a poche settimane dall’inizio del conflitto. È dunque in questo momento che la presenza americana nella regione si rafforza molto, mentre Israele si ritira dalla Striscia di Gaza occupata in risposta alle operazioni dei fedayyin».

Intanto, l’organizzazione palestinese guadagna concretezza anche da un punto di vista politico. Penso ad esempio alla creazione di Fatah o dell’OLP (Organizzazione di liberazione della Palestina). Come sono nati questi gruppi?
«L’organizzazione di una rete di solidarietà palestinese passa soprattutto da movimenti studenteschi. Studenti palestinesi all'estero, in Kuwait, in Egitto, in Libano, creano gruppi di militanza che vogliono un progetto centrato sulla liberazione della Palestina. Bisogna pensare che in quell'epoca – siamo fra gli anni Cinquanta e Sessanta – c'era un grande richiamo al panarabismo, l’idea di unire tutte le nazioni arabe. Progetti basati su nasserismo, baathismo, comunismo propongono un’unità araba. Ma le differenze di visione impediscono di federarsi per raggiungere l’obiettivo comune. In questo contesto, i palestinesi decidono di concentrarsi sul proprio progetto. Ricordiamo che con la nakba tanti palestinesi, soprattutto la classe borghese, è partita presto e spesso con un livello di educazione molto alta. Professori, ingegneri, insegnanti nelle scuole. I palestinesi sono accettati nei Paesi arabi vicini e il loro grado di istruzione permette loro, a tratti, di assumere anche posizioni di leadership. E nasce così, nel ’59, da un gruppo di studenti in Kuwait, il partito palestinese Ḥarakat al-Taḥrir al-Filasṭini, Movimento di liberazione palestinese, il cui acronimo arabo crea la parola Fatah, conquista. Il gruppo si unisce attorno a figure come Arafat, Abu Ali Iyad, Abu Jihad, Abu Mazen e ad altri leader, formando all’inizio degli anni Sessanta un ramo armato – conosciuto come al-Asifah, la tempesta. Dunque da piccoli nuclei di fedayyin si va verso una vera armata di Fatah che giocherà un ruolo nella guerra del ’67. Chiudo questa parte sull'organizzazione della resistenza internazionale e nazionale con due parole sull’OLP. L’Organizzazione di Liberazione della Palestina viene creata nel ’64 su iniziativa di Nasser per federare i vari partiti e movimenti palestinesi. È importante sottolineare il fatto che quando Nasser spinge la Lega Araba a riconoscere e sostenere la creazione dell'OLP, posiziona nel ruolo di leadership dell’organizzazione una persona poco accettata in Palestina. In quel momento l’OLP non è ancora un vero portavoce della causa palestinese, ma è un’estensione della volontà politica di Nasser».

Al momento della sua creazione, l'OLP non è ancora un vero portavoce della causa palestinese, ma è un'estensione della volontà politica di Nasser

Che ruolo giocano in questo contesto le organizzazioni islamiste come la Fratellanza Musulmana? Che legame hanno con la resistenza palestinese?
«La Fratellanza Musulmana viene creata negli anni Trenta in Egitto, ma rimane a lungo soprattutto una realtà egiziana. Fatah, il partito creato da Arafat, in realtà è molto ecumenico: vuole una Palestina democratica, secolare, e il suo progetto è di creare uno Stato per due popoli, dunque il riconoscimento agli ebrei di vivere dentro la Palestina storica, ma senza lo Stato di Israele. Secolare, sì, ma comunque aperto a membri più conservatori che oggi definiremmo islamisti. Ma l’islamismo in sé si diffonde in Palestina solo dopo la guerra dei sei giorni e negli anni ’70».

Entriamo allora nell’argomento: guerra dei sei giorni. Come riassumerlo?
«Si tratta di un capitolo enorme, non possiamo fare giustizia a tutto quanto avvenuto.  Limitiamoci all’essenziale. Nella puntata precedente parlavamo del fatto che la Striscia di Gaza ha preso la forma territoriale attuale nel ’48, con la guerra di indipendenza israeliana. Con la guerra dei sei giorni del ‘67, arriviamo al momento dove Israele occupa questi territori, ossia la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est, la Cisgiordania, ma anche le alture del Golan a nord. “Territori occupati” è un termine tecnico del diritto internazionale di guerra e indica quando una potenza militare conquista un territorio ed è considerata come potenza occupante. Questa ha degli obblighi nei confronti della popolazione civile occupata, e uno Stato occupante non ha il diritto di fare pulizia etnica, non ha il diritto di smantellare e distruggere infrastrutture civili, ha il dovere di provvedere a delle libertà di base per la popolazione. Ed è qui che si trova uno snodo importante di tutto il conflitto in Medio Oriente. I palestinesi ancora oggi dicono: “Non si può avere giustizia e pace in Palestina finché Israele rimane una potenza occupante”. E questa occupazione avviene dopo la guerra del ’67, la cosiddetta guerra dei sei giorni. Questa è la conseguenza più importante. Il casus belli del ’67 è per certi versi simile a quello della crisi di Suez. Problemi nella navigazione (in questo caso negli stretti di Tiran), attacchi dalla Siria al Nord, scambi di fuoco. Quando il conflitto scoppia, Israele ha un grado di preparazione tale da poter vincere in soli sei giorni. Una vittoria enorme per Israele, anche a livello religioso per il ritrovamento di luoghi di culto ebraico. Irraggiungibile per tanti anni, controllata dai palestinesi, Gerusalemme Est viene conquistata. Qui si trova il Muro del Pianto, e per la prima volta tanti israeliani possono avervi accesso. La conquista di Gerusalemme, per ricollegarci al discorso sull’islamismo, ha un forte valore simbolico anche per il mondo arabo. All’estero, nei Paesi a maggioranza musulmana, questa vittoria israeliana viene vista come un trionfo religioso dell’ebraismo. “Israele ha vinto perché ha compattato la propria società dietro la religione, toccherebbe anche a noi fare lo stesso”. Questo il pensiero di molti intellettuali musulmani e islamisti, che dà vita così a nuovi progetti ideologici lontani da quelli precedenti, come il nasserismo, che prevedevano l’emancipazione secolare. Insomma, anche nel ’67 i palestinesi sono sconfitti attraverso le potenze alleate: Giordania, Libano, Siria, Egitto. E l’evento è descritto, nel mondo arabo, come “naksa”, passo indietro. La guerra causa una nuova ondata di profughi che vanno ad aggiungersi a quelli del ’48: alcuni sono costretti a cercare riparo in Giordania o in Libano. Tornando a parlare del concetto di “territori occupati”, vale la pena citare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quest’ultimo decide che, al termine delle ostilità, Israele deve ritirarsi dai territori occupati. Ma c’è un’ambiguità sulla traduzione del testo, che parla di ritirare le truppe from occupied territories. Ma si intende “ritirarsi da territori occupati” o “ritirarsi dai territori occupati” (sottinteso, “tutti”, ndr)? La risoluzione ONU passa proprio per questa ambiguità. Ed è dalla mancanza di consenso sull’interpretazione che viene questa idea che Israele debba ritirarsi solo da alcuni territori, sebbene – secondo le convenzioni di Ginevra, in quanto potenza occupante – non abbia diritto a mantenere e annettere le zone occupate».

La guerra dei sei giorni si è conclusa con una vittoria enorme per Israele, anche a livello religioso

È subito dopo questa occupazione che viene avviata la colonizzazione dei territori occupati, con la creazione degli insediamenti citati nell’odierno conflitto?
«No, immediatamente dopo il ’67 sono pochissimi i casi di insediamento nei territori occupati. In questo periodo Israele opera soprattutto a livello demografico, cercando di spingere i palestinesi lontano da alcuni luoghi. Possiamo citare ad esempio la distruzione del quartiere maghrebino, ai piedi del Muro del Pianto, raso al suolo immediatamente dopo la conquista di Gerusalemme Est per fare spazio alla zona di preghiera. Negli anni ’70 gruppi religiosi israeliani come Gush Emunim promuovono un progetto che riguarda la creazione di piccoli insediamenti. Ma il grosso della colonizzazione cui fa riferimento avviene dagli anni Ottanta in poi. Colonizzazione che è illegale secondo il diritto internazionale, perché, come dicevo, non si può avere forme di pulizia etnica o forzare scambi di popolazioni».

Che ne è dell’OLP dopo la disfatta dei sei giorni?
«L’OLP, come detto, è nato dalla volontà di Nasser. E per il leader egiziano la guerra dei sei giorni rappresenta una sconfitta enorme. Dimessosi, viene richiamato al potere, ma non tornerà mai il leone del mondo arabo. Morto nel ’70, gli succede Anwar al-Sadat. L’OLP perde così il “padrino” egiziano. E i Paesi arabi, avendo subito una sconfitta clamorosa per mano di Israele, sono molto più cauti nel presentarsi come rappresentanti della causa palestinese. È nel ’68 che il fondatore di Fatah, Yasser Arafat, ottiene la carica più alta all’interno dell’OLP. È in questo momento che l’Organizzazione diventa per davvero un movimento. Nel 1974, un summit della Lega Araba a Rabat riconosce l’OLP e Arafat come l’unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese. Tutti i Paesi arabi accettano questa nuova leadership e da allora, anche se non hanno uno Stato loro, i palestinesi hanno un'entità riconosciuta a livello diplomatico e internazionale».

  La pubblicazione più recente: Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023  

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