Gaza, la narrazione impossibile nel buio dell’inferno «embedded»

È ancora possibile il giornalismo di guerra? Che cosa insegna ciò che sta succedendo in Ucraina e, soprattutto, in Medio Oriente? E siamo davvero in grado di conoscere quanto accade sul campo e nei luoghi in cui domina la logica delle armi? In un testo ormai diventato un classico - Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi (Laterza, 2009) - Oliviero Bergamini, già associato di Storia del giornalismo all’Università di Bergamo e oggi responsabile esteri del Tg1 RAI, scrive: «La storia del giornalismo di guerra dimostra che il diritto alla libera informazione è sempre al centro di una lotta continua e senza esclusione di colpi». Per un reporter non è mai facile «produrre informazione sulla guerra vera, articolata, seria, basata sul rispetto dei cittadini, fedele alla missione del giornalismo di costituire uno strumento essenziale della democrazia». Soprattutto quando le condizioni sul terreno sono ai limiti dell’impossibile.
A Gaza, in tre mesi, 109 cronisti sono stati uccisi dall’esercito israeliano. La Striscia è un territorio nel quale, ha scritto alla fine di novembre Reporters Sans Frontières (RSF) - l’organizzazione non governativa consulente ONU in tema di libertà di stampa - «il giornalismo è in procinto di essere cancellato a causa del rifiuto del Governo di Tel Aviv di ascoltare gli appelli a proteggere il personale dei media».
Il caso Oriani
Secondo Jonathan Dagher, responsabile dell’ufficio Medio Oriente di RSF, «si tratta di uno dei tributi più pesanti dell’ultimo secolo. Ai giornalisti internazionali è vietato l’ingresso a Gaza. I giornalisti palestinesi, invece, non hanno un rifugio sicuro e non hanno modo di andarsene. Sono uccisi uno dopo l’altro. Dal 7 ottobre, il territorio palestinese è stato sottoposto a un vero e proprio sradicamento del giornalismo». In effetti, il blocco totale della Striscia di Gaza deciso da Israele ha fatto sì che l’unico accesso possibile per i giornalisti internazionali fosse quello embedded, controllato cioè dalle forze militari dello Stato ebraico (IDF). E la condizione imposta dall’IDF è di poter controllare i testi e il materiale raccolto (video e foto) prima della pubblicazione.
Il New York Times si è ribellato all’idea di sottoporre preventivamente i testi degli articoli dei corrispondenti e, alla fine, ha ottenuto di non dovere sottostare alla censura preventiva. Lo stesso ha fatto il Washington Post. La CNN, invece, ha fatto sapere ai propri telespettatori di aver «acconsentito a questi termini per garantire una finestra, seppur ristretta, sulle operazioni militari di Israele a Gaza».
In Italia, ha fatto discutere la decisione di un giornalista, Raffaele Oriani, di lasciare dopo 12 anni la collaborazione con Il Venerdì di Repubblica per protestare contro il modo in cui, a suo dire, La Repubblica e gran parte della stampa europea stanno raccontando cosa accade nella Striscia. In una lettera aperta, pubblicata il 6 gennaio, Oriani ha scritto: «La strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea […]. Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. […] Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori».
Protetti ma censurati
Negli ultimi 30 anni, a partire cioè dalla prima guerra del Golfo, il giornalismo embedded è stato spesso l’unico possibile sui fronti di molte guerre.
Se dal punto di vista della sicurezza dei cronisti o dei foto-cineoperatori la protezione dell’esercito è un fattore positivo, è altrettanto vero che essere embedded comporta molte limitazioni: impedisce sicuramente la libertà di movimento dei giornalisti e finisce per condizionare il racconto dei fatti, dato che presuppone una visuale a senso unico.
Essere al seguito delle truppe significa spostarsi lungo direttrici prestabilite e, in fin dei conti, dà la possibilità alle autorità in divisa di decidere che cosa i media possano o debbano vedere e che cosa possano o debbano raccontare. Espone, inoltre, i giornalisti a un altro rischio: concentrarsi unicamente sulle questioni militari e tralasciare i diversi contesti - politico, economico e, soprattutto, sociale - che invece potrebbero servire a rendere efficace e autentica la narrazione.
Israele non ripete l’errore USA
È noto che il moderno giornalismo di guerra moderno è nato (e forse, insieme, morto) con la guerra del Vietnam, conflitto durante il quale la stampa ebbe una libertà di azione pressoché totale e i reporter poterono, seppure a proprio rischio, muoversi ovunque. Molti osservatori imputarono la stampa libera di essere stata uno dei fattori della sconfitta americana nella penisola indocinese; la stampa fu infatti accusata di aver condizionato l’opinione pubblica in modo negavito, alimentando l’ostilità generale e il giudizio negativo sull’operazione militare.
In un rapporto pubblicato 8 giorni fa, il Committee to Protect Journalists (CPJ) - organizzazione indipendente con sede a New York nata nel 1981 a difesa dei diritti dei giornalisti in tutto il mondo - ha sostenuto, portando a sostegno della propria tesi decine di episodi, che «Israele ha scelto in modo evidente di non facilitare in alcun modo, anzi di ostacolare, il lavoro dei giornalisti nella Striscia». E Human Rights Watch (HRW), altra ONG fondata a New York nel 1988, in un dossier di 51 pagine pubblicato alla fine di dicembre, ha spiegato come questa censura preventiva sia stata possibile per la decisione dell’azienda statunitense che possiede Facebook e Instagram - la Meta - di bloccare o ridurre, grazie ai propri algoritmi, i post e i messaggi critici verso Israele. Lo studio di HRW ha alla fine identificato sei modalità di censura: «rimozione di contenuti; sospensione o eliminazione degli account; impossibilità di interagire con post, video o storie; difficoltà a seguire o taggare account; restrizioni delle funzionalità live di Instagram e dirette Facebook; shadow banning», ovvero la «significativa riduzione della visibilità di determinati post, storie o account».