Iron Dome, Trump e la difesa antimissile USA: «La sicurezza al 100% non esiste»
Un Iron Dome, ma per gli Stati Uniti. È, questo, il progetto lanciato lunedì dal presidente americano Donald Trump, per la creazione di uno «scudo missilistico di nuova generazione» che protegga il Paese da «qualsiasi attacco aereo straniero: attacchi di missili balistici, cruise e ipersonici». Il riferimento, chiaro, è all'Iron Dome israeliano, la Cupola di Ferro che, specialmente nell'ultimo anno e mezzo, ha tenuto Israele al sicuro dai razzi di Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran. Con un ordine esecutivo, il tycoon ha chiesto al leader del Pentagono Pete Hegseth di presentare entro 60 giorni un piano che preveda una difesa su più livelli, tra i quali uno di «intercettori basati nello spazio».
Il piano è evidentemente ambiziosissimo. E nel corso della settimana i media americani (e non solo) hanno cercato di sviscerarlo. È davvero possibile creare una difesa impenetrabile? Ne parliamo con Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare.
Attenti al nome
Fra gli analisti, la proposta di un «Iron Dome for America» – questo il nome ufficiale del progetto – non convince. Alcuni hanno fatto notare che il sistema di difesa israeliano è pensato per rispondere a minacce a cortissimo raggio, e su un territorio dalle dimensioni esigue. Tutto il contrario delle esigenze americane. «Funzionerebbe solo se dal Canada attaccassero Detroit», ha ironicamente fatto notare qualcuno. Altri sono stati più cattivi: «Costerebbe migliaia di miliardi e non riuscirebbe nemmeno a proteggere Mar-a-Lago da missili provenienti dalle Bahamas».
L'idea di Trump, insomma, non va presa alla lettera. «L'amministrazione ha usato proprio il nome di "Iron Dome", ma si tratta di una definizione sbagliata già in partenza», ci spiega Gilli. «La Cupola di Ferro è un sistema di difesa anti aerea a corto raggio e bassa altitudine: Israele lo usa contro i razzi di Hamas e di Hezbollah, non contro i missili balistici iraniani». C'è, insomma, un problema di nomenclatura. «È vero, nell'uso comune, ormai, Iron Dome è sinonimo di sistema di difesa antiaerea israeliano». Ma questo, continua l'esperto, è composto da più livelli: Iron Dome è solo uno di essi e le minacce a lungo raggio e alta quota sono invece gestite da Tel Aviv grazie ai sistemi di difesa David's Sling e Arrow.
«Trump intende dire, in realtà, che l'America dovrebbe avere un più avanzato sistema integrato di difese antimissilistiche». La parola chiave è questa: «integrato». «In Israele, i tre sistemi, combinati, proteggono il Paese da minacce a corto, medio e lungo raggio, e a bassa, media e alta quota». A differenza di Tel Aviv, Washington non avrebbe però a che fare principalmente con razzi, ma anche e soprattutto con missili balistici intercontinentali – ipoteticamente lanciati da Cina o Russia – e altri tipi di missili, inclusi quelli ipersonici. «Contro armi del genere, il problema non sta solamente nella qualità dei missili intercettori, ma nella fase di avvistamento. Per via della curvatura della Terra, il momento di avvistamento dei missili in arrivo viene posticipato rispetto al lancio». Questa cecità «si risolve ad esempio con i sensori satellitari, che permettono di avvistare in anticipo la minaccia in arrivo». Un anticipo tutto sommato modesto: «Parliamo di una differenza nell'ordine di minuti, ma che possono fare la differenza».
Ogni sensore, così come ogni arma di difesa, ha i suoi vantaggi e svantaggi. Per questo, evidenzia Gilli, l'efficacia è ottenuta «solo con l'integrazione di più sistemi di difesa e sensori – di terra, aerei, navali e spaziali –, che insieme lavorino meglio della somma delle singole parti».
Il fatto che il tycoon abbia lanciato un appello alla creazione di un sistema di difesa integrato di nuova generazione non significa che, attualmente, gli Stati Uniti siano vulnerabili. In passato, ci spiega l'esperto, «Washington è stata pioniera nello sviluppo di sistemi di difesa antiaerea antimissilistica. Negli anni della Guerra Fredda, ad esempio, avevano sviluppato il centro di comando NORAD per aiutare ad avvistare i bombardieri sovietici in arrivo dal Canada». Un sistema di difesa integrato, insomma, «esiste già. Semplicemente, la fine dell'URSS ha spinto gli Stati Uniti ad allentare la presa nel settore».
La questione laser
Con l'intensificarsi delle tensioni fra potenze regionali e mondiali, gli Stati Uniti tornano quindi a guardare alla propria difesa. E, come detto, il piano di Trump punta in alto, altissimo, allo spazio. Fra le armi che potrebbero comporre il futuro sistema di difesa integrato americano, hanno spiegato in questi giorni i media americani, il presidente sogna di includere i laser spaziali. Una visione che già aveva teorizzato, nel 1983, l'allora presidente Ronald Reagan. «Star Wars», Guerre stellari. Così era comunemente noto lo Strategic Defense Initiative, un progetto abbandonato dopo una decina di anni (e tanti miliardi) con un nulla di fatto dettato anche da ostacoli tecnologici: i tempi non erano maturi. Ora le cose sono cambiate? «Vent'anni fa l'idea di avere armi laser (High Energy Weapons o High Energy Lasers) sembrava fantascienza. Nell'ultimo decennio, tuttavia, i grandi progressi dell'elettronica e della fisica hanno permesso di rendere questo progetto più realizzabile». Gli studi, ci spiega Gilli, sono ancora in corso e attualmente laser di questo tipo «possono essere prodotti su scala limitata». Ma rimangono ben lontani dall'essere l'arma perfetta: «Come ogni tecnologia, i laser hanno vantaggi e svantaggi. Non hanno bisogno di munizioni e quindi non avranno mai problemi di scorte. Ma la loro efficacia è attenuata in determinate condizioni atmosferiche, come alte concentrazioni di umidità o smog. Hanno un raggio più ridotto di altre armi di difesa antimissilistica e soprattutto, necessitano di grandissime quantità di energia per funzionare». Energia che è difficile portare su un satellite: «Presumo che la soluzione sia dotarli di un reattore nucleare», continua Gilli, «ma queste e altre difficoltà tecniche rendono le armi laser satellitari tutt'altro che una Wunderwaffe».
La sicurezza al 100% non esiste
A Gilli chiediamo una valutazione personale: la difesa della totalità dell'immenso territorio americano, auspicata da Trump, è un obiettivo realizzabile? «In senso astratto, sì. Come fatto durante la Guerra Fredda, Washington può sviluppare una difesa che si estenda all'intero Paese». Ma ciò non significa che l'efficacia sia garantita. Come nella lotta al terrorismo, ci spiega l'esperto, «anche nella difesa l'idea di sicurezza al 100% non esiste». L'avversario, infatti, agisce in modo strategico per passare attraverso le maglie della rete. «Prendiamo il caso dei palloni aerostatici cinesi, individuati nei cieli americani a gennaio 2023: erano sin lì riusciti a bypassare i sensori americani perché questi erano impostati per ignorare gli oggetti che si spostano al di sotto di una certa velocità». Da allora, gli americani hanno alzato la sensibilità dei propri radar, così da intercettare anche le minacce straniere che non siano aerei o altri mezzi veloci. Ma il botta e risposta, azione e reazione, è destinato a continuare. «È normale: qualsiasi investimento si faccia nella difesa, il nemico cercherà di sviluppare qualcosa di nuovo per sorpassarla».