L'analisi

«L’America raccontata dai giornali non è quella che ha votato Trump»

Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, intervenuto a Lugano nei giorni scorsi, spiega come gli Stati Uniti siano in realtà da molto tempo in una profonda crisi d’identità – C’è chi vede delle analogie con gli ultimi decenni dell’Unione sovietica o la fine dell’Impero britannico
©Jakub Porzycki
Generoso Chiaradonna
20.11.2024 06:00

È un volto noto della televisione italiana dove è spesso ospite in qualità di esperto e analista di geopolitica riconosciuto. Ha fondato nel 1993 la rivista Limes, pubblicazione - ora mensile - praticamente unica nel suo genere nel panorama editoriale italiano che dirige da più di un trentennio. Lucio Caracciolo, classe 1954, era a Lugano la scorsa settimana ospite dell’evento «CEO experience» organizzato dalla Camera di commercio del Cantone Ticino. Il tema, a distanza di una decina di giorni dalle elezioni statunitensi, non poteva che essere la rielezione - a distanza di otto anni dalla prima - di Donald Trump. «Quale America e quale mondo dopo l’elezione presidenziale statunitense - Scenari geostrategici». Caracciolo ha dialogato con il giornalista e scrittore Marcello Foa. È stata l’occasione per avvicinare Lucio Caracciolo e chiacchierare attorno al nuovo mondo che in ogni caso anche l’elezione di Trump contribuirà a disegnare.

Non vediamo l’America vera

«La vittoria di Trump è stata incentrata troppo sul personaggio, dimenticando cosa è veramente l’America profonda che lo ha eletto», afferma subito Caracciolo. «In Italia e anche in Europa, abbiamo questo vizio di immaginare che la Russia sia Putin e la Cina Xi Jinping. Non è così. Anzi, dirò di più, nemmeno l’Italia è Meloni o Salvini. Questo tipo di ragionamento è una conseguenza del fatto che l’America che immaginiamo noi è quella filtrata dai grandi giornali e dalla TV (Washington Post, New York Times e CNN, per citarne alcuni, ndr) ai quali per primi è sfuggita completamente la vera America, il Midwest - quella sorvolata dalla costa est a quella ovest - che ha votato per Trump», spiega Caracciolo, che sottolinea come la società statunitense sia in crisi d’identità da molto tempo. «Una crisi che rende meno cogente l’America nel mondo». «Trump alla Casa Bianca - continua l’esperto - significa che si occuperà un po’ più di America e un po’ meno del resto del mondo». Come lo farà? «Avendo in testa un’idea di un’America più protezionista dal punto di vista economico, applicherà su vasta scala il meccanismo dei dazi e delle sanzioni. Queste ultime in funzione di entità statuali- e anche non statutali - che fanno guerre che non piacciono agli americani in giro per il mondo». Queste entità dal punto di vista bellico sono l’Iran e la Russia e da quello economico la Cina.

Da alcuni anni, continua Caracciolo, sono in atto relazioni sempre più forti tra il governo statunitense ed entità economiche e finanziarie che si sono sempre più politicizzate. «L’ultimo in ordine di tempo riguarda una sola persona: Elon Musk, un elettrone libero nel sistema mondiale e americano che è stato decisivo nell’elezione di Trump e che ora “passa alla cassa” con la nomina al Department Of Government Efficiency, una sorta di super ministero con supervisione su tutta l’amministrazione».

Non per nulla la sigla DOGE suona come l’antica carica veneziana di guida della repubblica. «A dir la verità è anche il richiamo a una criptovaluta», precisa Caracciolo. «Musk, fino a quando Trump glielo permetterà, potrebbe condizionare la politica americana». Una specie di presidenza Musk per interposta persona? «Potrebbe essere, ma non sono sicuro che sarà così. Trump non cederà troppi passi», risponde il direttore di Limes che continua: «Inoltre, due galli nel pollaio americano sono troppi e credo che presto litigheranno, ma non è questo il vero punto». «Quello che è evidente è che il sistema istituzionale è saltato. È finita un’epoca, quella delle grandi illusioni liberal e della globalizzazione, per esempio. Ed è iniziata una fase di declino dell’America che potremmo definire di transizione egemonica, simile a quella che capitò all’Impero britannico all’inizio del 1900 e che portò nel 1945 alla affermazione egemone degli Stati Uniti che si è espressa con il primato del dollaro e quello delle sue forze armate».

L’impero decadente

In un recente articolo su «Repubblica» ha paragonato - citando lo storico conservatore Niall Ferguson - l’attuale crepuscolo degli Stati Uniti agli ultimi decenni dell’Unione sovietica. Un’affermazione forte. «Ferguson non è l’unico a dire una cosa del genere. È un storico scozzese, biografo di Henry Kissinger che ha fondato a Austin in Texas un’università privata contro il woke, contro l’esasperazione del politicamente corretto». Per quanto riguarda le analogie «ci sono evidenze palesi come la gerontocrazia, da una parte Leonid Brežnev a Jurij Andropov moribondi a reggere negli anni ‘70 e ‘80 gli ultimi decenni dell’Urss e dall’altra parte gli attuali Joe Biden, 82 anni, e Donald Trump che ne dimostra molti di meno, ma ne avrà 82 alla fine del mandato». «C’è il declino della potenza militare - molto più scenografica che effettiva, tanto è vero che gli americani da anni cercano clienti che combattono per conto loro guerre che non vogliono fare in prima persona. Ricordiamoci che è dal 1945 che gli Stati Uniti non vincono una guerra». Eppoi, c’è l’elefante nella stanza: «L’enorme debito pubblico che è sostenibile solo fino a quando il dollaro sarà utilizzato come moneta per gli scambi commerciali internazionali». Ma anche qui ci sono segnali che qualcosa sta cambiando come i Brics+. «Infine, c’è il sistema sanzionatorio, come far pagare ai russi i danni di guerra causati all’Ucraina attraverso i beni confiscati all’estero. Questa non è un’idea molto brillante. A questo punto la famiglia reale saudita, per dirne una, non si sente più sicura dei suoi investimenti negli Stati Uniti. È anche per questo che ha allacciato rapporti più stretti con la Russia quando fino all’altro ieri sembrava impossibile».

La fine dell’Ucraina

Donald Trump ha sempre detto che avrebbe fatto finire la guerra in Ucraina subito. «Non dubito che sia la sua volontà, dubito che sia la sua capacità perché ha un’idea da dealmaker della politica internazionale: “Mi siedo lì con Putin e gli dico cosa fare dopo un robusto scambio di opinioni”. E lo stesso con Zelensky. Non funziona così anche perché per motivi opposti i due interessati - Zelensky è troppo debole e Putin non può permettersi che una vittoria schiacciante per ragioni interne - non hanno voglia di stringere immediatamente accordi. Il rischio è che - continuasse questa guerra per qualche mese, non voglio pensare per qualche anno ancora -, alla fine mancherà uno dei due negoziatori. Zelensky e l’Ucraina sono avviati verso l’autodistruzione o meglio, la distruzione per mano russa. Non sono fiducioso su questo e nemmeno su Israele che si è lanciato in una guerra suicida che può durare parecchio tempo. Non solo Benjamin Netanyahu che ha ragioni sue per farla, ma chiunque arriverà dopo di lui, non potrà concluderla senza perdere la faccia».

L’Europa non esiste

E l’Europa intesa come Unione europea in tutto questo che ruolo ha attualmente? «L’UE non è un soggetto politico, al massimo è una sottomarca commerciale della NATO. I singoli Stati sono soggetti politici, ma i principali come Germania e Francia sono in profonda crisi sociale ed economica. La Germania con l’invasione dell’Ucraina ha perso il gas russo. La riduzione di quote rilevanti del mercato cinese e gli incentivi americani (programma IRA, ndr) a delocalizzare hanno fatto il resto. In questo momento la Germania ha perso la voce ed è palesemente divisa al suo interno con l’est che va verso un nazionalismo venato di filorussismo. Ci sono Paesi NATO come Polonia e Regno Unito che invece spingono verso un intervento militare diretto nel conflitto russo-ucraino con il rischio di una guerra mondiale che a parole nessuno vuole, ma il rischio che scoppi c’è». E l’Italia? «Non pervenuta, tranne questa strana relazione interessata tra Giorgia Meloni ed Elon Musk».