Le rivelazioni di Mark Zuckerberg? Non sono una novità assoluta
Sì, Mark Zuckerberg ha parlato. Anzi, ha inviato una lettera. Indirizzata al deputato repubblicano Jim Jordan o, meglio, alla Commissione giustizia della Camera da lui presieduta. L'oggetto della missiva? Le pressioni esercitate su Meta, la casa madre di Facebook, dall'amministrazione Biden. Amministrazione che, fra le altre cose, ha chiesto espressamente che alcuni contenuti riguardanti la pandemia da COVID-19 venissero censurati. Non solo, nella lettera Zuckerberg ha fatto riferimento altresì al famoso portatile di Hunter Biden e a una potenziale operazione di disinformazione russa collegata alla vicenda. Di qui, la decisione di «ridimensionare» e, di fatto, «retrocedere» la storia sul contenuto di quel portatile. Una decisione, ha ammesso Zuckerberg, rivelatasi errata poiché, in realtà, non c'era nessun complotto internazionale né tantomeno russo alle spalle. «Credo che le pressioni del governo fossero sbagliate e mi rammarico che non siamo stati più espliciti al riguardo» ha scritto il patron di Meta. «Penso anche che abbiamo fatto delle scelte che, con il senno di poi e con le nuove informazioni, oggi non faremmo». Rammaricandosi, in sostanza, di aver ceduto a quelle pressioni.
Le rivelazioni fatte da Zuckerberg, per quanto pesanti, non sono una novità assoluta. Anzi. Piuttosto, è significativo che il capo di Meta si inserisca nel cosiddetto filone del free speech questa settimana, sull'onda di quanto successo a Pavel Durov e di riflesso a Telegram. Il risultato? Da un lato, evidentemente, lo stesso Zuckerberg con questa mossa intende con buona probabilità mettersi al riparo da ulteriori critiche e guai; dall'altro, per contro, le sue ammissioni potrebbero far ribollire la base repubblicana in vista delle presidenziali. Con il rischio, di riflesso, di infiammare il dibattito politico. La lettera, volendo contestualizzare un minimo, è legata a un'indagine in corso. Indagine, riassumendo al massimo, incentrata sulla collaborazione fra l'amministrazione Biden e Big Tech nell'ottica, appunto, di censurare la libertà di parola online. In precedenza, Jordan aveva addirittura minacciato di accusare Zuckerberg di oltraggio al Congresso poiché quest'ultimo aveva ignorato una richiesta di presentare della documentazione. A distanza di qualche tempo, «Zuck» è parso decisamente più disponibile e, soprattutto, conciliante. Come mai?
Zuckerberg, dicevamo, ha riconosciuto e, ancora, elencato le varie pressioni subite dalla sua azienda. Anche per contenuti apparentemente innocui di carattere umoristico e satirico. Pressioni definite «sbagliate». Ma, come detto, di queste pressioni già si sapeva. Di più, le pressioni non riguardavano soltanto Meta, all'epoca dei fatti citati da Zuckerberg soltanto Facebook. Si sapeva, banalmente, perché l'azienda – più o meno un anno fa – aveva consegnato diversi documenti a Jim Jordan e alla Commissione giustizia. La Casa Bianca, dopo la missiva di Zuckerberg, dal canto suo ha ribadito che la sua posizione circa la disinformazione è sempre stata chiara e coerente. Ovvero, «Big Tech e altri attori privati devono tenere conto degli effetti delle loro azioni (e di quelle mancate, come l'assenza di moderazione, ndr) sul popolo americano».
La disinformazione, per contro, c'entra ma non è tutto. Nella lettera, infatti, Zuckerberg ha pure ricordato che, in vista delle presidenziali 2020, l'amministrazione Biden aveva chiesto a Big Tech di rallentare la diffusione di un articolo del New York Post sul portatile di Hunter Biden. Facebook, a suo tempo, aveva retrocesso quella storia mentre il suo team stava svolgendo regolare lavoro di fact-checking. Lo stesso aveva fatto Twitter, sebbene in questo caso non ci siano testimonianze dirette di pressioni da parte dei Democratici o delle forze dell'ordine.
La stampa, americana ma non solo, nel frattempo si è scatenata. Chiedendosi, fra le altre cose, come mai Zuckerberg abbia (ri)parlato. E come mai lo abbia fatto proprio adesso. Business Insider sostiene, al riguardo, che il capo di Meta abbia dato a Jordan il minimo indispensabile affinché i Repubblicani possano cantare vittoria. Nella speranza, forse, che Meta non esca con le ossa rotte da una causa federale contro l'Antitrust. Intendiamoci, però: il Congresso non c'entra nulla con questa causa, che invece proviene dalla Federal Trade Commission e da 40 Stati federali e che, anche qui riassumendo al massimo, è incentrata sul concetto di monopolio dopo le acquisizioni di Instagram e WhatsApp. Detto ciò, «mostrarsi belli» e collaborativi potrebbe avere ripercussioni positive su questo fronte. Un patriottico 2.0.