«L'Europa? Sull'Ucraina panico e disorientamento come all'inizio dell'era COVID»

«Stop totale alle armi statunitensi all'Ucraina». Il tema, inesplorato nell'era Biden, è ora finito sul tavolo del Commander in Chief Donald Trump. In queste ore – secondo quanto scritto dal New York Times, che cita funzionari anonimi dell'amministrazione americana –, il presidente ne parlerà con il segretario di Stato Marco Rubio e il segretario alla Difesa Pete Hegseth. E il patto sulle terre rare ucraine? Sfumato, trasformato in un accordo di Schrödinger (Zelensky ha garantito, in un'intervista alla BBC, di essere ancora pronto alla firma, il segretario al Tesoro USA Scott Bessent ha affermato che l'opzione non è più sul tavolo), l'Europa si prepara all'eventualità di trovarsi completamente sola nel sostenere la ricerca, per Kiev, di una pace giusta che non lasci il continente in balia delle mire espansionistiche russe. Ne abbiamo parlato con Paolo Capitini, generale dell'Esercito italiano ed esperto di scienze strategiche e storia militare.
Due dimensioni
Lo stop statunitense all'invio di armi in Ucraina agisce su due piani differenti, ci spiega l'esperto. «Un piano tocca l'immediato: che cosa succede nelle ore e nei giorni seguenti la decisione. L'altro, invece, riguarda il medio-lungo termine, e l'Unione europea in particolare». Partiamo dall'immediato. «L'esercito ucraino sta in piedi grazie alle forniture di armi e servizi statunitensi. Munizionamento e armi arrivano per il 90% da Washington: HIMARS, ATACMS, Patriot e così via, fino ad arrivare agli F-16». E lo stesso, continua Capitini, vale per la «parte software: tutte le informazioni che servono per il processo di targeting (sapere dove sparare, con quale priorità, potenza), senza le quali nessun esercito è in grado di operare nel campo di battaglia moderno, arrivano dai satelliti statunitensi. E, poi, le comunicazioni, attualmente garantite solo tramite Starlink di Elon Musk». Proprio in questi settori legati all'intelligence, spiega il generale dell'Esercito italiano, «l'Unione europea non ha alcuna possibilità di subentrare agli Stati Uniti: non ha mezzi e infrastrutture per farlo». E le armi? «Quasi l'80% di ciò che c'era nei magazzini europei è già stato dato a Kiev nel corso di questi tre anni». Per questo, riassume l'esperto, interrompere l'invio di armi statunitensi «equivale sostanzialmente ad anemizzare lo sforzo di difesa ucraino».
Per tornare a riempire, in modo relativamente rapido («un anno, un anno e mezzo») i propri depositi, l'UE potrebbe rivolgersi proprio a Washington, «ma difficilmente poi gli Stati Uniti permetterebbero di riesportare le armi verso l'Ucraina». Non avrebbe senso: «Lo stop, evidentemente, punta a costringere l'Ucraina ad accettare le condizioni di pace». Il patto tra Washington e Mosca, ipotizza Capitini, «potrebbe essere questo: gli Stati Uniti obbligano l'Ucraina a smettere di combattere, e la Russia promette di non andare oltre. Ciò porrebbe le basi per un primo cessate il fuoco, con la consapevolezza che a una trasgressione del Cremlino le armi statunitensi potrebbero rapidamente tornare a fluire verso Kiev».


L'industria bellica
Disarmata, l'Europa pensa ora ad alimentare la propria spesa bellica, e le proprie industrie, per assicurarsi l'indipendenza dal sostegno militare statunitense, sempre più in dubbio. «Certo, ci vorranno anni per riempire i magazzini con armi esclusivamente europee. Ma il problema è un altro. Con cosa li riempiamo? Con carri armati e fucili tutti diversi e incompatibili fra loro? Considerata l'urgenza dovuta allo scenario geopolitico e la disponibilità economica di cui gode l'UE per affrontare questo problema, è il momento, se non di creare un esercito europeo, almeno di uniformare armi e strumentazione. Si realizzerebbe così l'economia di scala che permetterebbe di produrre 5 mila esemplari di una sola tipologia di carro armato a spese minori rispetto a mille esemplari per cinque carri armati diversi». Le capacità tecniche, evidenzia Capitini, «esistono anche in Europa. È, questa, un'occasione: bisogna però creare un consorzio che abbia una sua credibilità».
L'Europa, questo è certo, non può stare a guardare. Con buona pace della disinformazione russa, che punta a dipingere il continente – impegnato nella ricostruzione delle proprie riserve – come un insieme di guerrafondai che rifiuta la pace. «Di fronte all'attacco e invasione di un Paese, con centinaia di migliaia di morti, i cattivi dovrebbero forse essere quelli che comprano i carri armati perché hanno paura e vogliono potersi difendere? È ovvio che i russi non ci battano le mani. Ma al di là di ciò, c'è differenza fra un concetto esteso di difesa e il riarmo. Bisogna capire che questa guerra ha portato l'Europa a esaurire le proprie riserve e queste vanno ripianate, in ogni caso».
Futuro: Ucraina e continente
Il futuro, evidenzia l'esperto, rimane difficile da predire, sia per l'Ucraina, sia per l'intero continente. «Anche se messa alle strette da un blocco americano, non è detto che l'Ucraina decida di arrendersi». Kiev possiede una propria industria bellica che, pur non garantendo armi avanzatissime, potrebbe essere in grado di sostenere un altro tipo di conflitto, meno aperto. «Gli ucraini potrebbero passare alla guerriglia, al sabotaggio», e ad altre forme di combattimento. Il tutto mentre la Russia potrebbe decidere, di sua sponte, di non proseguire con la conquista dell'intera Ucraina: «Nemmeno Mosca ha risorse infinite: ha pagato un duro prezzo per questa guerra. Conquistare ulteriori fette di territorio la cui popolazione recalcitrante creerebbe un nuovo Afghanistan, certo non renderebbe la vita facile al Cremlino».
E l'Europa? Finora, argomenta Capitini, «i Paesi dell'UE hanno avuto il lusso di concentrarsi su argomenti assolutamente secondari rispetto al compito essenziale dello Stato, che è garantire la sicurezza. Ci troviamo in una fase di estrema confusione all'interno dell'alta dirigenza europea, perché quello dell'indipendenza militare dagli Stati Uniti è un problema che non aveva mai dovuto affrontare». Una situazione di «panico», continua l'esperto, «comparabile a quello registrato agli inizi dell'era COVID, quando le autorità non sapevano come comportarsi e ognuno si è lanciato a modo proprio. Prima o poi bisognerà entrare nel campo del concreto. Ma al momento non ci siamo ancora: siamo nella fase del disorientamento».