L'intervista

«L'ombrello nucleare francese sull'Europa? Macron non sacrificherà Parigi per Tallin o Riga»

All'interno della NATO, la spaccatura fra Stati Uniti ed Europa si fa sempre più profonda e l'Unione è costretta a ripensare la propria difesa – Che cosa cambierà, anche per la Svizzera? Ne abbiamo parlato con Marc Finaud, ex funzionario del Geneva Centre for Security Policy
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Giacomo Butti
06.03.2025 17:59

«Chi può credere, ora, che la Russia si fermerà all'Ucraina?». L'Europa è preoccupata. Lo ha sottolineato, nel discorso di mercoledì alla nazione, il presidente francese Emmanuel Macron. Dopo il repentino allineamento di Washington a Mosca e lo stop alla collaborazione militare statunitense con Kiev, il Vecchio continente si trova solo nel promuovere una pace giusta per l'Ucraina, una che scoraggi nuove ingerenze russe. E mentre la spaccatura all'interno della NATO si fa sempre più profonda, ai Paesi europei non resta altro che ripensare la propria difesa, in maniera indipendente dagli Stati Uniti. Che cosa cambierà, anche per la Svizzera? Ne abbiamo parlato con Marc Finaud, ex diplomatico francese, attivo per un decennio al Geneva Centre for Security Policy (GCSP) nella formazione di diplomatici e ufficiali militari in materia di controllo degli armamenti e sicurezza internazionale. 

Tornato alla Casa Bianca, a Trump sono bastate poche settimane per invertire decenni di politica estera statunitense. L'Atlantismo si sta avvicinando alla sua fine? L'Europa deve accontentarsi di un "continentalismo"?
«Si tratta effettivamente di una svolta storica, ma resta da vedere fino a che punto Trump si spingerà. Il presidente statunitense non ha ancora annunciato il ritiro dalla NATO, che richiederebbe comunque un voto di maggioranza al Congresso. Il dibattito sulla condivisione degli oneri con la NATO non è una novità. Trump lo vede come un modo per costringere gli europei a comprare ancora più armi americane. È giunto il momento che l'Europa diventi meno dipendente dagli Stati Uniti e si faccia carico della propria sicurezza, intensificando la cooperazione tra le sue industrie della difesa, attualmente in competizione tra loro».

Da persona che ha lavorato per anni in prima linea, con il Geneva Centre for Security Policy, per promuovere la costruzione e il mantenimento della pace e al controllo degli armamenti, come valuta la corsa al riarmo europeo? Una risposta inevitabile?
«Per alcuni Paesi che si erano comodamente affidati all'ombrello americano, si tratta di una presa di coscienza sulla necessità di intensificare i propri sforzi. Ciò detto, il prodotto interno lordo dell'UE è dieci volte superiore a quello della Russia e il bilancio militare russo è meno di un terzo di quello europeo (146 contro 457 miliardi di dollari). Se l'Europa dovesse aumentare la propria spesa militare al 4% del PIL, lo sforzo richiesto alla Russia per raggiungere la parità sarebbe insopportabile (40% del PIL russo). Va detto, poi, che se i Paesi europei vorranno aumentare il proprio budget militare, dovranno farlo a spese delle politiche sociali o tramite ulteriore indebitamento, con il rischio di indebolire le loro economie. Le scelte dovranno essere oculate, soprattutto per proteggere l'Europa dalle nuove forme di guerra, dette “ibride”, più tecnologiche che militari in senso tradizionale».

De Gaulle non aveva fiducia nell'ombrello nucleare statunitense: pensava che gli americani non avrebbero sacrificato New York per Parigi. La stessa questione si pone per un'eventuale condivisione del deterrente francese in Europa: i francesi non sono certo disposti a sacrificare Parigi o Marsiglia per Tallinn o Riga

Recentemente, il futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz ha invocato un allargamento dell'ombrello nucleare francese e britannico alla Germania e ad altri Stati europei. Come funzionerebbe, concretamente, un simile progetto? È un concetto realizzabile nel rispetto del Trattato per la non proliferazione nucleare (TPN)?
«Gli Stati Uniti hanno schierato circa 100 armi nucleari in cinque Paesi della NATO in accordo con il concetto di “condivisione nucleare”. Le armi nucleari di proprietà della Francia e del Regno Unito sono state sin qui viste come un contributo al deterrente nucleare dell'Alleanza. Ma la condivisione della deterrenza è contraria al suo carattere nazionale, poiché è il leader di ciascuna potenza nucleare a decidere se e quando utilizzare le proprie armi nucleari. De Gaulle, ad esempio, non aveva fiducia nell'ombrello nucleare statunitense: pensava che gli americani non avrebbero sacrificato New York per Parigi. Per questo motivo fece della Francia una potenza nucleare. La stessa questione si pone per un'eventuale condivisione del deterrente francese in Europa: i francesi non sono certo disposti a sacrificare Parigi o Marsiglia per Tallinn o Riga. In ogni caso, trasferire anche solo parzialmente il controllo delle armi nucleari a Paesi non nucleari sarebbe contrario agli obblighi del TNP».

Dagli anni Novanta, nello scenario diplomatico mondiale, è promosso il paradigma della human security, un concetto di sicurezza incentrata sull'essere umano, prima che sulla nazione. In che modo i recenti sviluppi geopolitici hanno influenzato questa filosofia?
«Il concetto di human security, sicurezza umana, è emerso alla fine della Guerra Fredda, quando i conflitti armati tra Stati sono stati sostituiti, principalmente, da conflitti interni in cui il 90% delle vittime erano civili. Oggi la sicurezza dipende maggiormente dalla protezione dalle minacce transnazionali al clima, alla salute (pandemie), o dalla lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata o alle disuguaglianze sociali. Naturalmente, le minacce tradizionali della guerra tra Stati non sono scomparse e si presentano spesso in maniera ibrida (attacchi informatici, uso di mercenari o società private, manipolazione dell'opinione pubblica). Nella sua guerra contro l'Ucraina, Putin ha militarizzato le minacce alla sicurezza umana (energia, cibo, migrazione), con un impatto globale. Per rispondere, bisogna quindi combinare i mezzi per proteggere, contemporaneamente, sicurezza umana e sicurezza militare».

Mentre l'Europa ripensa la propria difesa, il Dipartimento della Difesa svizzero affronta una fase delicata, dopo le annunciate dimissioni della consigliera federale Viola Amherd e del capo dell'esercito Thomas Süssli. La Confederazione farebbe meglio a sfruttare la transizione per promuovere una rivoluzione anche all'interno della propria difesa?
«La neutralità ha portato la Confederazione a cercare un equilibrio tra la necessità di difesa militare e la promozione di una politica di pace basata sul soddisfacimento dei bisogni socio-economici della popolazione. Tuttavia, a differenza di alcuni suoi vicini, la Svizzera beneficia ancora di una cultura della difesa e della protezione civile. Dal punto di vista istituzionale, è necessario rafforzare non solo la capacità di affrontare le nuove minacce, ma anche il controllo democratico delle forze armate e di sicurezza».

Quanto è probabile che una rivoluzione europea nella difesa coinvolga anche la Svizzera, almeno in qualità di partner?
«Senza dover abbandonare la propria tradizione di neutralità, o aderire alla NATO o all'UE, la Svizzera potrebbe partecipare a progetti di armamento congiunti con altri Paesi europei. Come membro del Partenariato per la pace, del resto, contribuisce già alla formazione di personale militare e civile di altri Paesi della NATO e dell'UE».