Il caso

Ma il Washington Post, quindi, si è piegato a un miliardario?

Sta facendo discutere, in queste ore, la non scelta del quotidiano americano in vista delle presidenziali: dietro, infatti, ci sarebbe un diktat di Jeff Bezos
© Shutterstock
Marcello Pelizzari
26.10.2024 19:00

Lo slogan, quello slogan, oggi è più che mai in bilico. Democracy Dies in Darkness. La democrazia muore nell'oscurità. È in bilico o, quantomeno, in discussione. Sia fra i giornalisti che formano la redazione sia fra i lettori. Riavvolgiamo il nastro: venerdì, il Washington Post ha annunciato che non sosterrà alcun candidato alle imminenti presidenziali americane. Perché? Ufficialmente, leggiamo, per creare uno «spazio indipendente» e, al contempo, segnare un «ritorno alle origini» per il giornale che, in passato, evitava appunto di schierarsi. Secondo i più, invece, dietro alla decisione ci sarebbe nientepopodimeno che Jeff Bezos, il ricco, ricchissimo proprietario del quotidiano nonché il fondatore di Amazon. Al quale non sarebbe piaciuto un endorsement, redatto giorni fa, a favore di Kamala Harris. E puntualmente bloccato.

Negli Stati Uniti, storicamente, tanto i redattori quanto gli editorialisti hanno sempre goduto di ampia libertà e, soprattutto, di indipendenza rispetto alle proprietà dei quotidiani. Quanto successo lascerebbe invece intendere che, almeno al Washington Post, ma il discorso potrebbe valere pure per il Los Angeles Times, non è più così. Il non detto, nella non scelta del Post, è che gli sgravi fiscali promessi da Donald Trump fanno gola a un miliardario come Bezos. Molta più gola di un endorsement a Kamala Harris, certo più in linea come candidata considerando tanto lo slogan del Washington Post quanto i valori democratici che il giornale veicola. O dovrebbe veicolare. 

La storia, di per sé, è tutta qui. Anche se, a ben vedere, nasce da lontano. Durante la prima amministrazione Trump, infatti, l'allora presidente degli Stati Uniti – stufo delle critiche ricevute dal Post – minacciò di non concedere agevolazioni fiscali e sovvenzioni postali. Chiamatela pure ritorsione. Della serie: tu parli male di me e io distruggo il tuo business. Se nel 2020 Bezos, nonostante le minacce del tycoon, non si oppose alla scelta di sostenere Joe Biden, le coordinate adesso sono cambiate. E pure parecchio. A maggior ragione se consideriamo che i tanti, tantissimi problemi di Amazon con l'antitrust difficilmente si risolverebbero con Kamala Harris alla presidenza. Non solo, come ogni miliardario che si rispetti pure a Bezos non dispiacerebbe la prospettiva di arricchirsi ulteriormente grazie agli sgravi che Trump ha promesso all'élite economica del Paese. 

Dicevamo del Los Angeles Times. Il quotidiano californiano ha mal digerito, seppur in sordina rispetto al Post, l'invasione di campo del suo proprietario, il miliardario Patrick Soon-Shiong. Il quale, proprio come Bezos, ha detto niet a un endorsement già previsto per Kamala Harris. Gli analisti hanno contestualizzato il tutto ricordando che Soon-Shiong, a capo di un impero farmaceutico, avrebbe di che guadagnarci con una FDA più permissiva sotto Donald Trump (parliamo della Food and Drug Administration, l'Agenzia federale statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici) e, ancora, che è molto amico di Elon Musk. Parentesi: proprio il Washington Post, ironia della sorte, ha scritto che Starlink, una delle aziende di Musk, riceverebbe miliardi e miliardi di dollari in commesse federali con Trump alla Casa Bianca. Altri soldi, insomma, sebbene la figlia di Soon-Shiong abbia in seguito attribuito il mancato endorsement al sostegno di Harris a Israele. Detto che l'invasione di campo, al Los Angeles Times, ha fatto meno rumore, va ricordato che anche nella redazione del quotidiano californiano c'è chi si è opposto, con fermezza, a quanto accaduto: la direttrice delle pagine editoriali, Marial Garza, si è dimessa. Guai, ha detto, a rimanere in silenzio di fronte al diktat di un miliardario: «L'endorsement era un passo logico rispetto a una serie di editoriali che avevamo scritto su quanto Trump fosse pericoloso per la democrazia, sulla sua inadeguatezza a essere presidente, sulle sue minacce di incarcerare i nemici». L'omologo del Post, David Shipley, è invece stato criticato, aspramente, per aver appoggiato o comunque «trasmesso» la posizione della proprietà. Senza nemmeno provare a mettersi di traverso. Un dipendente del quotidiano di Washington lo ha definito così: «Sa come andare d'accordo con i ricchi». 

Ma Shipley, per così dire, era in buona compagnia. Le motivazioni ufficiali della non scelta del Washington Post sono state pubblicate in un editoriale a firma William Lewis. Un ex lacchè di Rupert Murdoch, per dirla con The Nation. Lewis ha dapprima liquidato con una certa arroganza la lunga tradizione di endorsement del quotidiano e, in seguito, agganciato la non scelta «ai valori per cui il Post si è sempre battuto». Descrivendo, infine, ciò che il Post spera di vedere in un leader: «Carattere e coraggio al servizio dell'etica americana, venerazione per lo Stato di diritto e rispetto per la libertà umana in tutti i suoi aspetti». I lettori, al riguardo, si sono chiesti (e hanno chiesto al quotidiano) se questi valori siano compatibili con un'eventuale vittoria di Donald Trump. Di qui le tante disdette inoltrate e «pubblicizzate» via social. Come dire: in un momento di pesante crisi democratica, è inammissibile non allinearsi.