«Per invadere Taiwan, la Cina è pronta all'attacco preventivo contro le basi USA»
«Xi Jinping è turbato e intimorito dalle difficoltà incontrate in Ucraina dalla Russia». Secondo il capo della CIA William Burns, espressosi nelle scorse ore su CBS, il presidente cinese avrebbe ordinato al proprio esercito di essere pronto a invadere Taiwan entro il 2027. Ma il fallimento del Blitzkrieg ordinato da Putin avrebbe spinto la Cina a qualche ulteriore riflessione: «Leader e ufficiali dell’esercito di Pechino non sono sicuri di riuscire a portare a termine la missione». Già, perché un’eventuale operazione sull’isola “ribelle” porterebbe a gravi conseguenze mondiali. Gli Stati Uniti, negli scorsi mesi, sono stati chiari: benché il Taiwan Relations Act, accordo stilato fra Washington e Taipei, non obblighi gli americani a intervenire in difesa di Formosa in caso di un’offensiva della Repubblica popolare cinese, Biden ha più volte sottolineato che un’azione militare contro Taiwan non verrà tollerata. Insomma, se la Cina dovesse fare la propria mossa, lo scontro porterebbe al coinvolgimento degli Stati Uniti.
Ma la Cina è pronta a simili implicazioni? Ne abbiamo parlato con Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare e politica internazionale.
Il confronto con la Russia
A poche settimane dall’invasione russa dell’Ucraina, gli analisti avevano lanciato l’allarme: «La Cina potrebbe imitare la Russia e ricorrere alla forza per risolvere i conti in sospeso con Taiwan». E negli ultimi dodici mesi, infatti, si sono moltiplicate le esercitazioni militari e invasioni dello spazio aereo insulare da parte di Pechino. Ma la sfilza di insuccessi collezionata da Mosca in Ucraina, dicevamo, sta spingendo Xi Jinping ad un’analisi più approfondita delle proprie forze. Putin aveva programmato di prendere il controllo di Kiev in una manciata di giorni. Così non è stato. E a influire sull’insuccesso della strategia russa, oltre alla tenace resistenza ucraina, sono state le palesi difficoltà organizzative (mancanza di rifornimenti e mezzi adeguati, oltre all’invio di reclute impreparate) e la debole catena di comando (si pensi ai frequenti avvicendamenti ai vertici dell’armata o alle tensioni fra esercito regolare e gruppi mercenari). L’esercito cinese, se dovesse intraprendere un’azione contro Taiwan, potrebbe incontrare simili problematiche? «In tempi moderni la Cina non ha effettuato operazioni militari. Non ha quindi l’esperienza accumulata da Stati Uniti, Regno Unito o Francia». Per questo, «fare previsioni sull’efficacia ed efficienza della sua linea di comando è difficile», sottolinea Gilli. «Ma un’operazione cinese a Taiwan potrebbe incappare in difficoltà simili, se non peggiori, a quelle riscontrate dalla Russia. Basti pensare che si tratterebbe di un’operazione anfibia. Parliamo di portare mezzi e soldati attraverso un braccio di mare, lo Stretto di Taiwan, su lente navi difficilmente mimetizzabili. Il personale e i mezzi trasportati su queste navi sarebbero esposti al rischio di venire colpiti e affondati prima ancora di arrivare a destinazione». Insomma, un vero e proprio incubo logistico esacerbato «dalla difficoltà per qualsiasi aggressore di conquistare la superiorità aerea su un territorio nemico, per via di tecnologie come i missili MANPADS (ne abbiamo parlato qui, ndr), sommati alle odierne difese antiaeree integrate a corto, medio e lungo raggio. È, questa, una delle lezioni più importanti della guerra in Ucraina».
Va anche detto, sottolinea l’esperto, che la Cina può contare su un asso nella manica: «Uno dei settori sui quali Pechino ha investito di più, negli ultimi decenni, è quello missilistico. La Cina ha sviluppato una gamma estremamente ampia di missili di precisione con i quali sarebbe in grado di colpire ogni tipo di obiettivo, ad esempio disattivando le batterie antiaeree e antinave di Taiwan prima ancora di cominciare l’invasione».
La strategia: portaerei e missili contro gli USA
Negli ultimi anni, poi, l’esercito cinese ha puntato molto sul potenziare le proprie forze navali. «È vero: con l’acquisto nel 1998 di una portaerei ucraina (e dopo anni di lavori per ristrutturarla) il Governo cinese è stato in grado di carpire molti segreti sulla loro fabbricazione, potenziando così la propria flotta».
Il risultato è stato la messa in servizio, nel 2019, di una seconda portaerei (Shandong) e il varo, nel 2022 di una terza (Fujian). «L’ambizione di Pechino è creare una blue-water navy: una marina in grado non solo di operare vicino alle coste, ma anche inoltrarsi nei mari e agire su grandi distanze». Cosa c’entra questo con Taiwan? «L’impatto di questa nuova potenza su un’eventuale invasione di Taiwan non è diretto», ammette Gilli. «L’isola è talmente vicina che le distanze vengono coperte senza problemi dai caccia. Utilizzare una portaerei nello Stretto esporrebbe solamente le forze cinesi al fuoco nemico». Per questo, il ruolo dei giganti navali va analizzato in uno scenario più ampio, quello di un’azione preventiva contro gli Stati Uniti per impedire il soccorso di Taipei.
L’esperto ci spiega, a grandi linee, un ipotetico piano: «Lo sforzo cinese nella fabbricazione di portaerei va inteso come un tentativo di spingere gli americani, da un punto di vista fisico, il più lontano possibile dalle coste cinesi». E il già citato «sviluppo di missili è parte integrante di questa strategia. Con questi, Pechino ha oggi la capacità di distruggere le basi statunitensi presenti nella regione, impedendo un intervento istantaneo in sostegno di Taiwan. In un tale scenario, la capacità da parte di Pechino di utilizzare missili carrier-killer (distruttori di portaerei, ndr) obbligherebbe gli americani a mantenere le proprie portaerei a una distanza maggiore dal teatro operativo, riducendo così l’efficacia dei jet la cui autonomia di volo è limitata». Intanto, le portaerei cinesi, schierate nell’Oceano Pacifico, avrebbero più libertà d’azione, «e la possibilità di abbattere facilmente, con i propri caccia, gli aerei di rifornimento (tanker) che gli Stati Uniti utilizzerebbero per mantenere in volo i jet costretti a coprire una maggiore distanza».
Gli errori di Washington
Insomma, per mettere le mani su Taiwan, la Cina ha già messo in conto l’idea di uno scontro diretto con gli Stati Uniti. E, in tal caso, il piano verrebbe con ogni probabilità messo in pratica proprio come appena illustrato: «La Cina non lo ha nascosto e ha addirittura eseguito dei test con modellini delle navi e basi americane. Pechino ha voluto far sapere a Washington di avere queste capacità. Mi stupirei se un’eventuale invasione di Taiwan non cominciasse proprio con un attacco alle basi statunitensi».
A Mauro Gilli, dunque, rivolgiamo la domanda secca: chi vincerebbe in un ipotetico scontro tra le due superpotenze, considerati risorse, effettivi e armamenti a disposizione? «È difficile rispondere. Il vantaggio principale della Cina sta nella vicinanza geografica all’ipotetico teatro dello scontro, il che rende più semplici rifornimenti e supporto logistico. In questo campo è indubbio che gli Stati Uniti incontrerebbero grandi difficoltà. D’altra parte, Washington, ancora oggi, mantiene una superiorità tecnologica che Pechino non è riuscita a erodere. Una risposta statunitense alla strategia cinese potrebbe essere, ad esempio, l’utilizzo di sottomarini a propulsione nucleare. Dotati di grande autonomia, sono in grado di lanciare missili da crociera senza emergere, fornendo così potenza di fuoco eludendo, contemporaneamente, le principali minacce a cui è sottoposta la flotta americana di superficie».
Nel frattempo, anche gli alleati degli americani si stanno muovendo: il patto siglato nel 2021 da Stati Uniti, Regno Unito e Australia (AUKUS) punta proprio ad aumentare la presenza militare occidentale nell’Oceano Pacifico tramite il potenziamento, con sottomarini a propulsione nucleare, della flotta australiana. C’è, però, un problema: per la consegna di questi sottomarini, Canberra dovrà aspettare un ventennio. Un colpevole ritardo? «Gli Stati Uniti, come detto, hanno risorse e tecnologia per rispondere ai propri avversari, ma negli ultimi decenni hanno sottovalutato tanti pericoli. Le amministrazioni Bush e Obama, in particolare, hanno concentrato i propri sforzi nella lotta al terrorismo, pensando che le potenze straniere non avrebbero più rappresentato la principale minaccia agli Stati Uniti. Sono bastati pochi anni per rendere evidente come questa scelta fosse estremamente dubbia».