«Per raccontare la guerra bisogna mettersi dalla parte degli innocenti»
Fausto Colombo è il direttore del dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, e prorettore dello stesso ateneo. Molti dei suoi studi sono incentrati sulla comprensione dei meccanismi comunicativi, compresi quelli relativi alla guerra, al dolore e alla verità del racconto giornalistico. Su questi temi, tra gli altri, ha pubblicato negli ultimi anni due importanti volumi: Verità e democrazia. Sulle orme di Michel Foucault (Mimesis, 2022) e Imago pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Vita e Pensiero, 2018).
«L’informazione ha sempre le sue fonti - dice Colombo al CdT - e le fonti, in guerra, sono purtroppo piegate in modo formidabile alla propaganda. Questo elemento, di per sé, costituisce sempre un problema, che si acuisce quando è più difficile andare sul campo, cosa che accade nella Striscia di Gaza, dove le condizioni di accesso sono complicatissime e il rischio per i giornalisti di restare feriti o uccisi molto elevato. Se non si può andare sul campo, non si ha la possibilità di avere fonti neutrali, per quanto parziali, né si possono vedere i fatti in modo diretto».
Per questo, raccontare il conflitto tra Israele e Hamas è affatto semplice. «Ma ci sono altre peculiarità che vanno sottolineate - aggiunge Colombo - mi riferisco innanzitutto alla lunghissima storia della guerra: quando le situazioni sono così storicizzate, anche le opinioni pubbliche e gli osservatori risentono del giudizio generale che si dà della situazione in atto. Inoltre, pesa enormemente l’origine di questo scontro, vale a dire l’incursione del 7 ottobre e la morte di 1.200 civili: non è facile, per chi narra, non dare l’impressione che condannare una cosa significhi automaticamente legittimare l’altra».
Un imbuto strettissimo, dal quale è tuttavia possibile uscire. Come? «Mettendosi dalla parte delle vittime innocenti. Prendiamo i bambini - spiega Colombo - sono innocenti per definizione, non possono cioè nuocere. Niente può quindi giustificare la mutilazione o l’uccisione dei bambini, né è pensabile vendicarne la morte, ad esempio quella crudele causata dalla feroce incursione di Hamas, mietendo altre vittime innocenti. Anche se può sembrare un ossimoro, c’è una morale pure in guerra, qualcosa che differenzia i moderni conflitti dalle lotte tribali. E il cronista è ovviamente autorizzato a dirlo».
Tutto questo, però, consapevoli del fatto che mettersi dalla parte delle vittime non produce, in modo automatico, lo scuotimento delle coscienze. «È stata Susan Sontag, in Davanti al dolore degli altri, a spiegarci come lo sdegno morale non sia il prodotto automatico dell’osservazione di un atto violento - dice ancora Fausto Colombo - durante la guerra civile americana, le fotografie dei morti delle battaglie campali impressionarono pochissimo l’opinione pubblica degli Stati del Nord, molto meno di quanto fecero le immagini delle condizioni penose cui erano costrette le giacche blu nei campi di prigionia confederati. Questo perché il giudizio morale dipende sempre dall’etica individuale».
Un’ultima questione: possono i giornalisti raccontare la violenza della guerra senza indugiare sui particolari più crudi? «Ho troppo rispetto di chi fa questo mestiere per dare regole - conclude Colombo - ma il grande giornalismo ci insegna alcuni princìpi. Il primo dei quali è less is more. Anche la realtà più dura non ha bisogno di tutti i dettagli».