L'intervista

«Perché Donald Trump usa l’insulto come strategia comunicativa»

Sociologa di formazione, Sara Bentivegna è una delle più importanti studiose europee del rapporto tra media e politica, argomento sul quale ha tenuto corsi anche alla London School of Economics and Political Science
©WILL OLIVER
Dario Campione
17.04.2025 06:00

Sara Bentivegna è ordinaria di Comunicazione Politica e insegna nel Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CORIS) della Sapienza a Roma. Sociologa di formazione, è una delle più importanti studiose europee del rapporto tra media e politica, argomento sul quale ha tenuto corsi anche alla London School of Economics and Political Science.

Professoressa Bentivegna, alcuni giorni fa Donald Trump ha usato un’immagine molto forte e non particolarmente gradevole a proposito dei rapporti con altri capi di Stato e di Governo. Molti si sono chiesti come sia stato possibile arrivare a tanto. Vero è che Trump stava facendo un comizio in una sala piena di repubblicani. Ma le sue parole sono state pesanti e inappropriate, soprattutto per un presidente degli Stati Uniti.
«Per Trump, l’uso di un linguaggio volgare o comunque polarizzante, aggressivo, nei confronti degli avversari - interni o esterni che siano - è una costante. Anzi: è diventato ormai un tratto identificativo. In qualche modo, egli utilizza l’inciviltà come strategia comunicativa per differenziarsi dagli altri soggetti politici. Tanto più oggi, dopo aver promesso la rapida soluzione dei conflitti in Ucraina e a Gaza senza ottenere alcun risultato. Su questo, e sulla politica economica, tema che gli ha fatto vincere la campagna elettorale ma rimasto sinora senza grandi successi, Trump deve segnare una discontinuità con le precedenti amministrazioni. E in mancanza di dati concreti, si differenzia con il ricorso a un linguaggio appunto trasgressivo, incivile, inappropriato per un presidente degli Stati Uniti».

Nel suo libro sulla politica dell’inciviltà lei sostiene, appunto, che questo modo di fare è diventato, oggi, un modo per declinare la propria identità politica.
 «Sì, e per Trump è stato così, almeno all’inizio, mentre in questa fase sembra avere un po’ perso il controllo della situazione. Confonde pubblico e privato senza vedere più quali siano i confini tra i due contesti. Da questo punto di vista, è emblematico il caso della battuta davvero infelice fatta nel corso della cena per raccogliere fondi. In quell’occasione, Trump non si è reso conto di non poter permettersi un simile comportamento. E tuttavia, credo che ci sia un altro elemento da sottolineare, nel suo caso e non solo».

Quale?
«Con l’uso di un linguaggio improbabile, incivile, offensivo, in realtà si sta abbassando la soglia - oltre la quale un tempo non si poteva andare - relativa a proposte o letture assolutamente strampalate. Molti ricordano, durante la campagna elettorale, l’accusa rivolta agli immigrati che mangiavano gli animali domestici. Quello è stato un ulteriore segnale del fatto che ormai, con un linguaggio e con contenuti inverosimili o infondati, si può dire tutto. E Trump lo sta facendo. Dice e fa tutto ciò che gli è consentito, nei limiti del suo potere, senza nemmeno cercare tratti di coerenza, come pure normalmente un presidente dovrebbe fare, quantomeno per dare un senso al proprio mandato».

L’impressione è anche che ci sia una sorta di auto-alimentazione di questo linguaggio, di auto-accrescimento. Più si utilizza, più si pensa di essere costretti ad alzare i toni, a usare parole e concetti ancora più forti. È come una gara nella quale l’asticella della provocazione si sposta sempre più in alto.
«Oltre ad avere una personalità del tutto imprevedibile, Trump dimostra di amare profondamente la sua posizione di potere, che esercita nell’intento di dominare l’altro. L’abbiamo visto quando ha ricevuto Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca; e l’abbiamo rivisto l’altro giorno con le infelici espressioni sul bacio al fondoschiena. Purtroppo, il ricorso a questo linguaggio è un pericolo per la democrazia, perché sdogana tutto. Le violazioni di linguaggio, a un certo punto, diventano anche situazioni di sostanza».

Nel suo studio, lei afferma che questo modo di parlare, di rivolgersi agli elettori, è una sorta di collante sociale. Un modo in cui, sostanzialmente, i leader si legano al popolo.
«È inevitabile che sia così, soprattutto quando si vuole far leva su un’ideologia populista o sulla diffusione di sentimenti antipolitici. Un leader come Trump, che pure è espressione dell’establishment politico e delle élite economiche e finanziare, deve fare di tutto per essere percepito come estraneo a quelle stesse élite. Ben si comprende come sia una situazione un po’ complicata da gestire. Per questo molti leader politici, negli ultimi anni, hanno scelto di usare un linguaggio viscerale, di pancia. Il linguaggio della strada. Come se ciò riducesse le distanze con i cittadini. È chiaro che l’analisi del voto è un’operazione complessa, nella quale entrano molte variabili. Però, diciamo la verità, non mi sembra che l’uso di questo linguaggio sia stato penalizzante. Tutt’altro. Tanto è vero che lo stesso Trump è stato rieletto».

Dopo l’incontro con Zelensky nello Studio Ovale, non so se qualcuno lo ricorda, disse: “Abbiamo fatto un bel pezzo di televisione”. Da questo punto di vista, Trump mostra una decisa consapevolezza

Certamente. Tuttavia, l’uso di un linguaggio del genere trasforma inevitabilmente la politica in uno scontro permanente. Non c'è più dibattito, dialogo, confronto. Diventa difficile costruire qualcosa. La dialettica della democrazia si trasforma in una battaglia senza quartiere, una sorta di ring nel quale alla fine vince chi le suona più forti. Un ring che a un certo pubblico sembra piacere.
«Intanto, in queste forme di nuova politica c’è una forte componente di intrattenimento. Le stesse che ritroviamo nelle espressioni di Trump, il cui agire è performativo. Una continua esibizione. Dopo l’incontro con Zelensky nello Studio Ovale, non so se qualcuno lo ricorda, disse: “Abbiamo fatto un bel pezzo di televisione”. Da questo punto di vista, Trump mostra una decisa consapevolezza. È sempre lì a mettere in atto e a rappresentare sé stesso come presidente degli Stati Uniti».

Anche questa, però, sembra essere una strategia vincente.
«Sì, certo. Ma, alla lunga, credo produca grossi danni. Gli attori politici vi ricorrono perché le bad manners, le cattive maniere, ormai sono un tratto esibito che segnala distacco rispetto appunto alle élite. In realtà, tutto ciò provoca una distanza ancora maggiore dei cittadini rispetto alla politica. È davvero un boomerang, perché indirettamente conferma il fatto che dalla politica è meglio tenersi lontani».

Si può dire che la battaglia al politicamente corretto è inevitabile conseguenza di tutto questo? E quali possono essere gli effetti della negazione o del contrasto di un linguaggio che tenga conto, ad esempio, delle differenze di genere?
«Penso che sia sicuramente un arretramento culturale, politico e sociale. Al di là delle estremizzazioni, che possono e devono sempre essere evitate, l’uso di un certo tipo di linguaggio testimonia rispetto per l’interlocutore. Lo stesso rispetto che, nell’attuale fase storica, non solo non si mostra, ma forse nemmeno si prova».

Ma questa «politica dell’inciviltà», di cui lei si è occupata nelle sue ricerche, è inevitabile? C’è la possibilità che possa in qualche modo regredire? Oppure la vittoria di Trump, e non solo di Trump, rischia di farla affermare in maniera definitiva, anche se nella storia non c’è mai qualcosa di definitivo?
«Ma guardi, è difficile rispondere. Io credo una cosa: finché i vantaggi dell’uso e del ricorso all’inciviltà linguistica e verbale saranno, come dire, percepiti come tali dagli attori politici, non si tornerà indietro. Finché si penserà che un certo linguaggio, un certo modo di essere, siano paganti elettoralmente, si continuerà ad adottarli. La vera questione è tuttavia un’altra. E riguarda gli effetti perversi di questa politica così aggressiva».

Che cosa intende dire?
«La politica dei dazi di Trump sta provocando, non soltanto in Europa, una riflessione sulla necessità di adottare strategie di risposta. Sicuramente, non era ciò che voleva il presidente degli Stati Uniti. Quindi, potrebbe darsi che dopo questa sorta di indigestione, di mancanza di rispetto dell’altro, di sopraffazione, si possa tornare a ripensare un momento a che cos’è la politica, a che cos’è il rapporto dei cittadini con la politica. Forse potremmo anche pensare di essere noi a rovesciare questa situazione, a fermare questa ondata. Sebbene, onestamente, al momento mi sembra che tutti quanti siamo qui fermi a vedere che cosa succede sui vari fronti».

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