L'analisi

Putin ha sfidato Trump: e ha vinto

Il leader del Cremlino, sfruttando la sua astuzia, ha messo in campo l'arte del «no deal» tipicamente russa: minime le concessioni, esagerate le richieste per un cessate il fuoco
©Mikhail Metzel
Marcello Pelizzari
19.03.2025 11:15

Il cauto ottimismo di ieri, per dirla con l’esperto Antonio Missiroli, contattato dal Corriere del Ticino per un commento a caldo, sta facendo a pugni con i fatti. Da un lato, l’Ucraina deve ancora esprimersi ufficialmente sulla tregua di trenta giorni limitata alle infrastrutture energetiche, al di là dell'okay di massima, dall’altro c’è confusione fra ciò che afferma l’inviato degli Stati Uniti Steve Witkoff («In realtà la tregua riguarda le infrastrutture in generale») e ciò che ha detto (e dice) il Cremlino. Inciso: l’America aveva parlato di «energia e infrastrutture», la Russia ha sintetizzato a suo modo. In mezzo, la guerra continua. E Mosca non ha perso tempo per attaccare, con forza, il Paese invaso.

L’ambizione di Donald Trump, «fermare la guerra» e assicurare un cessate il fuoco duraturo in Ucraina, una volta di più si è scontrata con Vladimir Putin e l’intransigenza del Cremlino. Il presidente russo tanto (tutto) vuole e poco, pochissimo concede. Il dubbio, legittimo, è se il tycoon si sia accorto del muro contro cui ha sbattuto e continua a sbattere.

Riavvolgiamo il nastro. La scorsa settimana, Trump aveva avvertito la leadership ucraina: dite sì a un cessate il fuoco di trenta giorni o scordatevi armi e rapporti di intelligence da parte nostra. Kiev aveva accettato le condizioni. Subito dopo, con una certa soddisfazione (ed enfasi) il segretario di Stato americano Marco Rubio aveva spiegato che la palla, ora, era nel campo della Russia.

Ieri, durante la telefonata di un’ora e mezza fra Mosca e Washington, questa palla è ritornata, diciamo così, avvelenata. Se è vero che Vladimir Putin ha accettato una tregua di trenta giorni limitata alle infrastrutture energetiche, secondo quanto riferito dal Cremlino, è altrettanto vero che il presidente russo ha detto no a un cessate il fuoco completo. Comprendente l’aria e i mari. Un no, intendiamoci, sfumato, non urlato, fatto passare per un «forse»: è l'arte del no deal tipicamente russa.

Chi si aspettava durezza da parte dell’amministrazione Trump nel commentare la telefonata, evidentemente, è rimasto deluso, anche se non c’è da sorprendersi considerando, da una parte, la delicatezza del momento e, dall’altra, la vicinanza fra il presidente degli Stati Uniti e l’omologo russo. Invece di mettere all’angolo Mosca, come peraltro fatto con l’Ucraina, il comunicato della Casa Bianca è stato redatto con toni entusiastici. Dalle relazioni bilaterali «migliorate» ai vantaggi di un rapporto fra le due potenze in termini di «accordi economici e stabilità geopolitica».

Il Telegraph, al riguardo, è stato piuttosto tagliente: Putin ha sfidato Trump e una sua precisa richiesta, ancora una volta senza pagarne il prezzo. Non solo, quel poco, pochissimo che ha concesso – in realtà – fa comodo al Cremlino: gli attacchi in profondità, in territorio russo, da parte dei droni ucraini hanno provocato non pochi danni alle raffinerie della Federazione. Più di quanti ne abbia fatti la Russia lanciando più o meno tutto quello che ha contro le infrastrutture energetiche ucraine.

Si dirà: da qualche parte bisognava pur cominciare. Vero. Ma qualcosa, appunto, sfugge. Putin, per intenderci, non è finito nella ragnatela tessuta da Trump. Semmai, ci sono finiti gli ucraini. Ricordate il trappolone allo Studio Ovale teso a Volodymyr Zelensky? Ecco.

E ancora: che cosa si sono detti, davvero, Putin e Trump durante la telefonata di ieri, al netto di una proposta da parte russa di un incontro di hockey apparentemente distensivo? Non lo sappiamo. Sappiamo, però, che la diplomazia europea e quella ucraina stanno faticando a far valere il concetto di pace giusta, l’unica fra l’altro umanamente e moralmente accettabile, e che stanno vivendo con apprensione l’avvicinamento fra Mosca e Washington. Sappiamo, ancora, che Putin anche a questo giro poco ha concesso e nulla, in cambio, ha offerto. Con buona pace di Trump, che di alzare i toni con il Cremlino (per ora) non vuole saperne. Forse, volendo malignare, perché per il tycoon è difficile ammettere di essere stato bluffato dalla controparte.

La telefonata a lungo annunciata e pubblicizzata da Trump, alla fine, ha prodotto un topolino rispetto alla posta in gioco. Il presidente degli Stati Uniti, lo abbiamo visto anche durante il suo primo mandato, confidava e confida di poter persuadere o, addirittura, superare in astuzia il leader del Cremlino. Il quale, al contrario, ritiene di poter ottenere (quasi) ciò che vuole senza sforzo alcuno: lo ha dimostrato, dicevamo, anche a margine di questo colloquio.

Milioni di ucraini, e non solo, nel frattempo trattengono il fiato: quale sarà la prossima mossa dell’amministrazione Trump e dello stesso tycoon? Farà, finalmente, pressione su Mosca o, peggio, concederà territori come lasciavano intendere alcune indiscrezioni dei media statunitensi? Potrebbe giovare, all’America, una sorta di presa di coscienza: Putin, scrive la CNN, non ha a cuore né le sorti dell’Ucraina né tantomeno un vero miglioramento delle relazioni con Washington e, di riflesso, Trump, ma intende perseguire i suoi obiettivi militari.