«Quello di Trump nei confronti dell'Ucraina è un tradimento»
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Solo un mese è trascorso dall'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, ma sembra ne siano passati cento. La mole infinita di ordini esecutivi e annunci pubblici shock ha reso difficile, se non impossibile, il lavoro della stampa americana e internazionale. A quali news provenienti da Washington dare la precedenza? Negli ultimi giorni, il deteriorarsi dei rapporti fra il presidente statunitense e l'omologo ucraino Volodymyr Zelensky ha, se non altro, spazzato via ogni dubbio in tal senso. Abbiamo parlato di questo e di altri aspetti importanti di queste quattro settimane a piena trazione trumpiana con Raffaella Baritono, ordinaria di Storia e Politica degli Stati Uniti d’America alla Scuola di Scienze politiche dell’Università di Bologna.
Gli attacchi di Trump a Zelensky, gli incontri fra diplomatici russi e statunitensi a Riad, il rifiuto, da parte di Washington, di definire la Russia "Paese aggressore" in un comunicato del G7. La retorica del tycoon sembra essersi tradotta in pratica diplomatica. Ma che senso ha, dopo tre anni di guerra e un fermo sostegno a Kiev, questa inversione di marcia?
«È difficile dare una forma di razionalità a
qualcosa che agli occhi degli europei appare piuttosto sconcertante. Da una parte, Trump aveva già detto in campagna elettorale che avrebbe messo fine alla guerra e, anzi, che se lui
fosse stato presidente il conflitto non sarebbe mai iniziato. Ora deve quindi dimostrare la propria coerenza di fronte a un elettorato, quello che l'ha sostenuto, che non ha mai visto positivamente un coinvolgimento statunitense nella guerra, sia dal punto di vista militare sia da quello economico. Al momento non siamo in grado di valutare fino in fondo se le mosse dell'amministrazione Trump stiano effettivamente delineando un
nuovo ordine mondiale, una rottura con una tradizione di politica estera americana che godeva di una certa continuità e consenso tra repubblicani e democratici. Certamente, i rapporti tra Trump e Putin si giocano sulla condivisione di un certo modo di intendere il
potere: una visione accentrante, con un esecutivo dominante sul legislativo. Non si può escludere, poi, che per Trump – un presidente il cui obiettivo principale è allargare i mercati dell'industria americana – questo cambio di politica prefiguri un'apertura per le imprese statunitensi dello spazio economico russo».
Poi c'è chi parla di un ricatto politico architettato per spingere Kiev a cedere metà delle sue terre rare. O chi – rievocando il patto Molotov-Von Ribbentrop, con il quale URSS e Germania nazista si spartirono la Polonia – parla di un vero e proprio tradimento ai danni dell'Ucraina. Che cosa ne pensa?
«Gli Stati Uniti oggi si chiedono per quale motivo spendere miliardi per la difesa dell'Ucraina. Per Trump, l'Ucraina non è centrale. Sì, le terre rare e altre risorse significative fanno gola, ma non abbastanza da evitare che siano prese in considerazione, come alternativa, le esigenze russe che potrebbero mettere fine al conflitto. È un tradimento? Certo. Non c'è dubbio. L'amministrazione Biden aveva ritenuto ci fosse stata una chiara violazione del diritto internazionale, e che ci fosse chi aveva attaccato e chi si era difeso. Tutto questo è stato completamente stravolto dalla retorica di Trump. Ma è presto per capire a quale fine».
Negli anni Novanta, con il memorandum di Budapest l'Ucraina aveva ottenuto – in cambio dell'impegno nella non proliferazione delle armi nucleari – una serie di garanzie, da parte di Washington e Mosca, sulla propria sicurezza e integrità territoriale. Non è, questo, abbastanza per vincolare Washington alla difesa dell'Ucraina?
«Solo se si immagina una continuità
nella politica estera americana, cosa ora lontanissima alla realtà dei fatti. Tutte le mosse dell'amministrazione Trump, sia in politica interna sia in
politica estera, sono di totale cesura rispetto al passato. Trump non
si sente assolutamente vincolato da quelli che erano gli impegni che aveva
preso l'amministrazione americana in precedenza».
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Sembra che il cambio di paradigma sia anche sociale. Le ostilità maturate nell'epoca della Guerra fredda facevano sì che, finora, Mosca fosse vista ancora come un avversario diretto, se non il nemico numero 1. Il fatto che Trump faccia da megafono alla narrazione promossa da Putin ha portato, sì, a qualche critica, ma non a una reazione compatta. È sorpresa?
«Credo che parte dell'opinione pubblica
americana ritenga ormai la Russia una potenza regionale e che l'obiettivo strategico sia la Cina. Secondo questa visione, quindi, l'avvicinamento di Trump a Putin potrebbe aiutare a spezzare l'asse Mosca-Pechino. Già sotto l'amministrazione Biden, la maggior parte della popolazione americana non aveva probabilmente compreso fino in fondo l'importanza dell'Ucraina e non la riteneva un obiettivo strategico. Le guerre in Iraq e Afghanistan hanno avuto ricadute interne, con un impatto sul consenso agli interventi all'estero. Quella statunitense è un'opinione pubblica sempre
meno propensa ad avallare l'idea di un impegno a livello globale statunitense o a vedere gli Stati Uniti come difensori, senza se e senza ma, della democrazia nel mondo».
Che impatto può avere lo stile aggressivo di Trump sulle alleanze? Fra gli Stati europei, Washington sta perdendo credibilità a favore della Cina?
«Tutto questo, ovviamente, sta mettendo a dura prova, i rapporti transatlantici. Ma sul tema di Pechino le tensioni fra Europa e Stati Uniti c'erano già state prima, ad esempio per lo sviluppo del progetto della Nuova via della seta. Ci sono elementi che mettono in evidenza come gli
interessi economici statunitensi ed europei, divergano abbastanza. È difficile, tuttavia, che questo poi abbia come conseguenza un avvicinamento dal punto di
vista strategico».
Mentre il mondo si concentra, per ovvie ragioni, sull'impatto internazionale di Trump, la nuova amministrazione si sta muovendo rapidamente anche per trasformare gli Stati Uniti stessi. Sotto la raffica di ordini esecutivi, Congresso e tribunali sembrano in difficoltà nel mantenere l'equilibrio fra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Ci sono analisti che parlano apertamente di una crisi costituzionale. Un'espressione giustificata?
«Non è sbagliato parlare di cristi costituzionale. Siamo in presenza di un tentativo, da parte
dell'amministrazione Trump, di interpretare in maniera eccessivamente estensiva
i poteri della presidenza. Le misure messe in atto dall'amministrazione nello smantellamento di determinate
agenzie o rispetto al licenziamento di funzionari non allineati a Trump dimostrano una volontà di imporre l'azione dell'esecutivo come un processo scorporato dal dialogo con gli altri due poteri – il legislativo e il giudiziario –: un'imposizione gerarchica della volontà del presidente. Ciò è particolarmente pericoloso perché va a toccare quel sistema di pesi e
contrappesi di separazione dei poteri che riguarda il modo in cui è stato
costruito l'assetto costituzionale degli Stati Uniti. Questa tendenza dell'esecutivo di allargare la sfera delle proprie competenze non è una novità dell'amministrazione attuale: si è verificata da Nixon in avanti. Ma è vero che questo processo è stato esasperato sotto Trump con estreme conseguenze. Attualmente, il Congresso appare nonostante tutto abbastanza allineato e il partito democratico sembra avere difficoltà a trovare voce nell'opporsi: lo si è visto nella fase che ha riguardato le audizioni per le nomine dei segretari dell'amministrazione Trump, dove anche quelle che sembravano più problematiche – come quella di RFK Jr. – sono state approvate. Discorso diverso per quanto riguarda l'apparato giudiziario, che può e si sta già muovendo. Nelle corti federali sono state impugnate molte decisioni di Trump, come quella di mettere fine ai programmi di inclusione o quella di fermare gli aiuti internazionali. In tutte queste cause i giudici federali potrebbero prendere una posizione contro l'amministrazione: quella che si profila è dunque una battaglia istituzionale, pesante e divisiva, fra presidenza e apparato giudiziario. Per questo si può parlare di crisi istituzionale. Russel Vought, nominato da Trump alla guida dell'importante Office of management and budget (OMB) ha parlato, invece, di un'era "post-costituzionale"».
Tutto ciò potrebbe avere un impatto a lungo termine, ben oltre la seconda presidenza Trump.
«Non non c'è dubbio: i precedenti sono molto importanti nella storia politica e costituzionale americana e quindi spesso ciò che viene fatto da un presidente costituisce una sorta di punto di riferimento e di
legittimazione per gli altri. La presidenza Trump si muove su due piani: da una parte lo smantellamento dell'amministrazione, dall'altra il tentativo di politicizzare agenzie che per statuto sono autonome e sulle quali il presidente non avrebbe autorità per licenziare i direttori come nulla fosse. In tempi passati tutto questo avrebbe portato impeachment di chi sta alla Casa Bianca».
Nei prossimi mesi le cose potranno cambiare?
«I cicli della politica americana sono molto brevi. In estate cominceranno le manovre per le elezioni di metà mandato e quello sarà un test
importante per capire fino a che punto il partito repubblicano è
diventato il movimento MAGA e in che misura il partito democratico riuscirà a trovare una capacità di rilancio e di leadership».