Terre rare e rotte navali artiche: perché la Groenlandia fa gola
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Le ricchezze minerarie della gelida Groenlandia sono diventate le materie prime più calde al mondo. La più grande isola del mondo, ha mirabilmente sintetizzato qualche giorno fa Geoffrey Dabelko, climatologo, già direttore del programma di studi ambientali e preside associato della Voinovich School dell’Ohio University, è il luogo strategico in cui si intrecciano più fattori: «I cambiamenti climatici, la scarsità di risorse, le tensioni geopolitiche e i nuovi modelli commerciali». Insomma, «il centro della competizione geopolitica e geoeconomica del pianeta».
Ecco perché quando il presidente americano Donald Trump scrive sul suo social Truth che «Ai fini della sicurezza nazionale e della libertà in tutto il mondo, gli Stati Uniti d’America ritengono una necessità assoluta la proprietà e il controllo della Groenlandia», l’opinione pubblica sorride o magari si indigna per le maniere grossolane, irriguardose e irrituali tipiche del tycoon, ma le cancellerie colgono con chiarezza il messaggio lanciato dalla Casa Bianca. Temendolo, da una parte. Condividendolo, da un’altra.
Sorveglianza spaziale
In Groenlandia, nel Nord-Ovest dell’isola, Washington occupa un’importante base militare di sorveglianza spaziale, la Pituffik Space Base, già conosciuta come base aerea di Thule (oggi Qaanaaq), in cui al momento sono di stanza 200 soldati americani e 450 uomini NATO. Un avamposto cruciale per intercettare le possibili minacce, missilistiche e non, provenienti da Est, e dalla Federazione Russa in particolare.
Troppo poco in uno scenario internazionale in cui le priorità sono ormai anche altre. Ad esempio, la produzione di terre rare, di cui l’isola è ricchissima. O l’apertura di nuove rotte navali artiche, favorite dallo scioglimento dei ghiacci. Una recentissima ricerca ha mostrato che 25 dei 34 minerali ritenuti «materie prime critiche» dalla Commissione europea sono stati trovati in Groenlandia: terre rare, grafite, rame, nichel, zinco, oro, titanio-vanadio, ferro, tungsteno. Cui vanno aggiunti diamanti, uranio, petrolio e gas. L’estrazione degli idrocarburi, in Groenlandia, è vietata per motivi ambientali, mentre lo sviluppo del settore minerario è stato ostacolato soprattutto dall’opposizione delle popolazioni indigene.
Scelte difficili da comprendere e accettare per un presidente che, nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, ha promesso, letteralmente, di «trivellare ogni luogo possibile». Non solo. A pesare c’è pure il vantaggio negli ultimi anni dalla Cina. Dal 2023, Pechino ha vietato l’esportazione di tecnologia utilizzata per estrarre e raffinare le terre rare, e l’anno scorso ha imposto regole rigorose per i minerali esportati e utilizzati nelle catene di approvvigionamento occidentali. A dicembre, poi, la Cina ha deliberato un divieto generale di vendita all’estero di gallio, germanio e antimonio, motivando la decisione sulla base del fatto che questi elementi hanno un duplice uso, militare e civile.
Groenlandia e Stati Uniti stanno già collaborando sui minerali a seguito di un accordo del 2019 stipulato durante il primo mandato dell’amministrazione Trump. Finora, però, questa collaborazione sui minerali ha riguardato la mappatura, l’analisi, il lavoro sul campo e il marketing diretto. Non l’estrazione dei minerali, né tantomeno lo sfruttamento delle miniere. Obiettivo principale della nuova amministrazione americana.
Le strade marittime
C’è, poi, la questione delle rotte artiche. Dal 1992 a oggi, la Groenlandia ha perso circa 182 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno. Molto presto, l’isola sarà «un punto chiave» a causa dell’effetto che lo scioglimento della sua calotta glaciale avrà sul livello del mare, ha dichiarato al Guardian Mark Serreze, direttore del National Snow and Ice Data Center di Boulder, in Colorado.
Le strade marittime del Polo Nord fanno gola in particolare alla Cina, che potrebbe raggiungere i porti europei in tempi minori rispetto ai percorsi tradizionali. Secondo uno studio di ricercatori della Brown University di Providence, nel Rhode Island, un viaggio da Shanghai a Rotterdam attraverso la rotta polare ci metterebbe da 14 a 20 giorni in meno rispetto ai 45-50 giorni necessari oggi passando per il canale di Suez. Un taglio che comporterebbe risparmi notevoli: di tempo e di costi. Pechino è inoltre doppiamente interessata alle rotte polari vicine alla Groenlandia anche per superare il cosiddetto «dilemma di Malacca», ovvero l’eventualità che lo stretto tra Indonesia e Malesia sia bloccato dagli Stati Uniti o dai suoi alleati che oggi controllano stretti e colli di bottiglia, i principali snodi del commercio mondiale.
Il prossimo 6 aprile gli abitanti della Groenlandia voteranno per rinnovare il Parlamento locale e c’è la possibilità che, nello stesso giorno, venga indetto un referendum sull’indipendenza. Il premier Mute Egede, in carica dal 2021, spinge per staccarsi definitivamente da Copenaghen. Ma non sembra intenzionato a dare corda a Trump. «La Groenlandia è nostra. Non siamo in vendita e non saremo mai in vendita. Non dobbiamo perdere la nostra lunga lotta per la libertà», ha scritto l’altro giorno sui social. Certo è che a fronte di un sì all’indipendenza, la Groenlandia potrebbe avvicinarsi agli USA (o essere avvicinata da essi) per far fronte a spese altrimenti difficilmente sostenibili (la Danimarca sovvenziona Nuuk con un miliardo di euro l’anno). Magari con un patto di libera associazione, la stessa formula che gli Stati Uniti usano con le isole Marshall o la Micronesia e Palau.