«Trump è il teorico degli alternative facts: se per ragioni tattiche è utile sposare la retorica di Putin, lo farà»
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L'Europa, dunque, dovrà «fare da sola»? E L'Ucraina, di riflesso, davvero verrà abbandonata dagli Stati Uniti? Domande, queste, emerse con forza dopo l'incontro-scontro di venerdì alla Casa Bianca fra Donald Trump, il suo vice JD Vance e il leader di Kiev Volodymyr Zelensky. Domande, ancora, che abbiamo girato a Mattia Diletti, politologo dell'Università La Sapienza di Roma nonché autore di Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo (Treccani).
Professore, è possibile ricondurre i toni accesi di Donald Trump e JD
Vance al «vissuto» fra l’attuale presidente e Volodymyr
Zelensky? Sappiamo, ad esempio, che Trump nutre un certo rancore per la vicenda
Hunter Biden. O si è trattato, piuttosto, di un calcolo politico e strategico
dell’amministrazione Trump per forzare Zelensky ad accettare le
condizioni quadro in vista di un accordo con la Russia e, parallelamente, per
motivare un eventuale disimpegno statunitense in Ucraina?
«Si è aperto un dibattito mondiale sull’ipotesi che fosse
una trappola premeditata o meno. Penso lo fosse, e che servisse a due obiettivi:
il primo è indebolire Zelensky – la speranza potrebbe essere quella di avere
una leadership ucraina più malleabile – mentre il secondo è fargli pagare il prezzo di
richieste che, in vista di un eventuale accordo con la Russia, gli Stati Uniti
non vogliono accettare. Trump pretende concessioni, Zelensky chiede
contropartite. Su questa base politica e materiale si innesta l’elemento
personale, che nel caso di Trump non è mai assente. C’è un risentimento
evidente, Zelensky sembra essere percepito con un prodotto e un alleato dei
democratici. Ovviamente, la vicenda non si può ridurre a questo. A volte, nelle
azioni di Trump si intravede chiaramente l’obiettivo di fondo, ma non si
percepisce quale sia la strada per ottenerlo. Mi pare un errore grave, perché sottintende
la presunzione di controllare il processo. Per quanto si possa essere
consapevoli della propria superiorità economica e militare, ci vorrebbe una
maggiore accortezza. La storia della politica estera americana è costellata di
problemi imprevisti che hanno fatto deragliare i loro progetti. Certo, in
questo momento hanno ottenuto l’obiettivo di indebolire Zelensky. E quindi
rafforzare Putin».
A proposito di possibili conseguenze: l’Europa ha reagito, da un lato, con sdegno e preoccupazione
ai toni di Trump e, dall’altro, compattandosi (al di là di
alcune singole posizioni) con Zelensky. L’UE deve prepararsi a fronteggiare da sola la minaccia russa
o lo strappo può essere ricucito? Concretamente, qual è la posizione di questa amministrazione
nei confronti dell’Europa?
«La partita è ancora aperta. L’Europa percepisce in modo
diverso la Russia rispetto agli Stati Uniti, ma anche le reazioni interne al
campo europeo non sono identiche. Il presidente polacco, Duda, invita Zelensky
a trovare un modo di riaprire una discussione con Washington; Giorgia Meloni ha
mostrato un incredibile imbarazzo e non ha espresso appoggio pubblico a
Zelensky, per non parlare di Orban. La Germania non ha ancora un governo
operativo, e questo indebolisce l’azione europea. Starmer è inequivocabile nel
sostegno all’Ucraina, ma non fa parte dell’Unione e gioca una partita
complessa: per tenerlo lontano dall'UE, Trump non intende porre dazi sulle
merci britanniche. L’Ucraina è un pezzo di una partita a scacchi nella quale gli
Stati Uniti non sono più un alleato affidabile per l’Europa, a cui Trump chiede
di spendere di più per la difesa e comprare più merci americane (per non
parlare del debito). Più debole e divisa l’Europa, più facile raggiungere
questi obiettivi. Per questo gli americani appoggiano – come i russi – i
partiti anti-europeisti dei Paesi UE. In questo momento gli Stati Uniti sono un
avversario dell’Unione Europea, e la questione russo-ucraina è solo una parte – importante – di questo confronto. A mio parere, l’Europa avrebbe dovuto
immaginarsi come forza militarmente autonoma da almeno due decenni. Nessuna
amministrazione americana lo avrebbe mai accettato, ma ora è stato oltrepassato
il Rubicone».
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A Kiev, ma non solo, molti si chiedono come mai Trump abbia
sposato in toto, o in gran parte, la narrazione russa a proposito della guerra.
E come mai non affermi certe evidenze fattuali, come la responsabilità della
Russia nell’aver scatenato il conflitto. Anche qui, i
rapporti fra Trump e Putin parlano di un certo vissuto e di una visione (quasi)
comune nell’intendere il mondo: un giardino
riservato a potenze e superpotenze. È così?
«Trump, fin dal suo discorso di insediamento come presidente
il 20 gennaio, sta costruendo un immaginario imperiale. Ha citato la dottrina
del Destino manifesto, quella che nell’Ottocento teorizzava le ragioni morali
dell’espansione continentale degli Stati Uniti; ha citato il presidente
McKinley, un presidente eletto nel 1896 che è stato l’unico imperialista ''tradizionale'' (all’europea) della storia americana (un’eccezione: gli americani si sono
sempre auto-rappresentati come esperienza storica in rottura con l’imperialismo
europeo). Trump ragiona in termini di sfere di influenza. Canada e Groenlandia
sono a due passi dagli Stati Uniti, che hanno la forza per fare pressione su
questi Paesi. Il diritto, in questa logica, proviene dalla forza e non dagli
accordi internazionali. In questa chiave, Putin e Trump si intendono, e Trump
comprende la volontà di Putin di dire la sua nel proprio cortile di casa. È la
rottamazione dell’Ordine internazionale disegnato dagli stessi americani dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale. Dobbiamo abituarci, come europei, a gestire
questo dato di realtà. L’altro dato di realtà che va gestito è che la verità fattuale
non è un tema per l’amministrazione Trump. Trump è il teorico degli alternative
facts: se per ragioni tattiche è utile sposare la retorica putiniana, lo farà».
Internamente, negli Stati Uniti, le posizioni di Trump sull’Ucraina verranno mantenute dalla totalità dei Repubblicani
o dobbiamo aspettarci spaccature?
«Le
spaccature con i Democratici, la stampa e parte dell’opinione pubblica sono già
evidenti. Alcuni eletti del Partito Repubblicano si schiereranno contro Trump.
Ma saranno voci deboli: Trump è ancora nella sua luna di miele con base
trumpiana, e il suo sostegno è indispensabile ai Repubblicani in vista delle
elezioni di metà mandato del 2026. Dopo, forse, le cose cambieranno».