Musk prende tempo: «Mi dimetterò quando troverò un altro folle»
Elon Musk prende palesemente tempo. A inizio settimana ha deciso di lanciare uno dei suoi sondaggi: «Dovrei dimettermi dalla carica di capo di Twitter? Mi atterrò ai risultati di questo sondaggio». Il 57,5% degli utenti, o meglio dei 17,5 milioni che hanno espresso un voto, ha votato a favore delle sue dimissioni dalla carica di amministratore delegato della società. Chi si aspettava l'annuncio immediato, però, è rimasto deluso. Solo nelle scorse ore, infatti, il patron di Tesla si è finalmente espresso direttamente sulla questione. E non è stato un annuncio shock: «Mi dimetterò da amministratore delegato» di Twitter - ha twittato - «non appena avrò trovato qualcuno abbastanza folle da assumere l'incarico». E ha pure aggiunto che una volta che si sarà dimesso, continuerà lo stesso a guidare i team per il software e i server della società, la parte «più tecnologica»
È alla ricerca di un nuovo CEO?
Nelle ore successive all’esito del sondaggio, Musk aveva ripreso a pubblicare tweet senza commentarne l’esito. Rispondendo a un account, si era detto a favore di una revisione delle regole sul social network, in modo da consentire solamente agli account paganti di partecipare ai sondaggi che determinano le politiche di Twitter. «Nessuno vuole il lavoro che può davvero tenere Twitter vivo», aveva replicato a un altro utente. E ancora: «La questione non è trovare un amministratore delegato, ma trovarne uno che sia in grado di tenere Twitter vivo». L’imprenditore aveva anche aggiunto che il prossimo amministratore delegato «dovrebbe investire su Twitter che si trova, da maggio scorso, sulla corsia preferenziale verso la bancarotta».
Ma secondo alcune indiscrezioni, il patron di Tesla sarebbe «attivamente» alla ricerca di un nuovo CEO per Twitter. Ad annunciarlo è stata la CNBC, che ricorda come Musk abbia già precedentemente affermato che la sua posizione da amministratore delegato sarebbe stata temporanea. «Mi aspetto di ridurre il mio tempo su Twitter e trovare qualcun altro che lo gestisca nel tempo», aveva dichiarato lo scorso novembre. Secondo speculazioni riportate dal Financial Times, tra i candidati ideali ci sarebbe Sheryl Sandberg, l'ex direttrice operativa di Meta che ha trasformato l'azienda in un gigante della pubblicità digitale. Un altro nome sarebbe quello di Sarah Friar, CEO di Nextdoor, già direttrice finanziaria della società di pagamenti Block creata dal cofondatore di Twitter Jack Dorsey.
Proseguono i Twitter Files
Intanto, è stata pubblicata l'ottava puntata de «The Twitter Files», il thread lanciato per la prima volta a inizio mese con la storia di Hunter Biden ricostruita dal giornalista Matt Taibbi. In seguito all'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, il miliardario avrebbe iniziato a fornire accesso (limitato) ad alcuni documenti dell'azienda, affermando che «l'idea è di far emergere qualsiasi cosa negativa Twitter abbia fatto in passato». Secondo l'episodio odierno, «Twitter ha aiutato il Pentagono nella sua campagna di propaganda online segreta». La ricostruzione è del giornalista Lee Fang, secondo cui il social network avrebbe fornito approvazione e protezione alla rete di account dell'esercito americano. «Il Pentagono ha utilizzato questa rete, che include portali di notizie e meme generati dal governo degli Stati Uniti, nel tentativo di plasmare l'opinione pubblica in Yemen, Siria, Iraq, Kuwait e oltre», scrive. Un'«assistenza diretta fornita da Twitter al Pentagono» che risalirebbe ad almeno cinque anni fa.
Tra le altre, il 26 luglio 2017, Nathaniel Kahler, all'epoca un funzionario che lavorava con il Comando centrale degli Stati Uniti, divisione del Dipartimento della Difesa, ha inviato un'e-mail a un rappresentante di Twitter con la richiesta di approvazione e di verifica di un account e una lista di altri 52 account in lingua araba da inserire nella «lista bianca». Tra questi figurava @yemencurrent, un account utilizzato per diffondere annunci sugli attacchi di droni statunitensi nello Yemen. Altri account sulla lista erano indirizzati alla promozione delle milizie sostenute dagli Stati Uniti in Siria e diffondevano messaggi anti-Iran in Iraq. Un altro parlava di Kuwait. Account in lingua araba che twittavano «messaggi su questioni rilevanti di sicurezza».
«È profondamente preoccupante se il Pentagono lavora per plasmare l'opinione pubblica sul ruolo dei nostri militari all'estero - ha commentato a The Intercept Erik Sperling, direttore esecutivo di Just Foreign Policy, una non profit -. Ancora peggio è se le società private lo aiutano a nasconderlo. Il Congresso e le società di social media dovrebbero indagare e agire per garantire che, come minimo, i nostri cittadini siano pienamente informati quando i soldi delle loro tasse vengono spesi».