«Non è possibile escludere una terza grande crisi bancaria»

Oggi sui banchi del Parlamento arriverà il rapporto, di oltre 700 pagine, della Commissione parlamentare d’inchiesta (CPI) «Gestione delle autorità - fusione d’urgenza Credit Suisse». La prima Camera ad occuparsene sarà il Consiglio degli Stati. Abbiamo intervistato la «senatrice» friburghese Isabelle Chassot (Centro), presidente della CPI.
Nel 2008, dopo il salvataggio di UBS, era stato detto che una situazione simile non si sarebbe ripetuta. Invece, è accaduto di nuovo. Dopo il crollo di Credit Suisse nel 2023, c’è il rischio di une terza grande crisi bancaria in Svizzera?
«La CPI lo ha confermato: non è possibile escludere che in futuro ci possa essere una nuova crisi bancaria, perché ogni crisi si presenta in modo diverso. La crisi di UBS del 2008 e quella di Credit Suisse nel 2023 sono sorte per motivi completamente diversi. L’analisi che abbiamo condotto dimostra che con alcuni accorgimenti è possibile ridurre il pericolo, o almeno garantire che le autorità siano meglio preparate a fronteggiare il rischio e, in particolare, a riconoscere l’insorgere di una crisi. Ma non mi sentirete dire che non ce ne saranno più».
La taglia di UBS, oggi, rappresenta un rischio per il contribuente elvetico?
«Ora abbiamo una sola grande banca sistemica ed è di importanza mondiale. Rappresenta un rischio, ma anche un’opportunità per la Svizzera. È per questo che è stata creata la legislazione “Too big to fail”, per minimizzare il rischio. In questo ambito, è una situazione particolare per il nostro Paese, perché il bilancio di UBS è pari al doppio del PIL svizzero. Ciò è diverso dalle altre banche di importanza sistemica di altri Paesi, che sono più grandi di UBS, ma rappresentano una frazione del PIL. Questo particolare rischio lo dobbiamo tenere in considerazione per il futuro».


Ha parlato della legislazione «Too big to fail». Entro la fine del 2026, il Consiglio federale dovrà presentare un messaggio al Parlamento con gli adeguamenti necessari. È necessario agire prima, con misure più urgenti?
«Dopo l’improvvisa fusione del marzo 2023, la situazione si è stabilizzata. Al momento non c’è un’urgenza assoluta, ma non significa che non si debba fare nulla. Al contrario, ora bisogna lavorare, ad esempio sul “public liquidity backstop” (PLB, un meccanismo pubblico di garanzia delle liquidità, ndr) che è in attesa di essere esaminato dal Parlamento. Si deve lavorare su un’ordinanza, ma è compito del Consiglio federale, relativa al capitale proprio. Sarà essenziale. L’Esecutivo ha già annunciato l’intenzione di sottoporre al Parlamento un pacchetto di modifiche di legge. Ci vuole però anche tempo. Non dobbiamo avere fretta e legiferare nell’urgenza. Il rapporto della CPI ha illustrato tutta una serie di raccomandazioni, misure e proposte che riguardano le autorità coinvolte, come lo stesso Consiglio federale o la FINMA (l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari, ndr). Per implementare ciò non bisogna certo aspettare il 2026».
Questo pomeriggio il «pacchetto» Credit Suisse approderà al Consiglio degli Stati. Ci sono una quindicina di atti parlamentari, che vanno in tutte le direzioni. Cosa bisogna attendersi?
«Mi aspetto una discussione approfondita sulle misure da adottare a livello legislativo ed esecutivo. Dopo aver preso atto del rapporto, discuteremo degli interventi depositati dai membri della CPI (quattro mozioni e sei postulati) lo scorso dicembre. E poi ci saranno gli atti parlamentari presentati al momento della crisi, alcuni dei quali sono in realtà in parte superati. L’UDC, ad esempio, ha già ritirato alcune mozioni presentate al Nazionale. La Commissione dell’economia e dei tributi degli Stati, dal canto suo, propone di sospendere la trattazione di tali interventi».
Il rapporto elaborato dalla CPI conta 712 pagine. Quale aspetto vorrebbe mettere in risalto della vostra inchiesta?
«È importante spiegare che il ruolo della CPI è di giudicare l’operato delle autorità e non di puntare il dito contro i responsabili all’interno della banca. Fatta questa premessa, abbiamo individuato degli elementi che dimostrano chiaramente come i veri e soli responsabili del crollo della banca sono i dirigenti dell’istituto e la loro gestione totalmente insufficiente».


E per quanto riguarda le autorità?
«La seconda lezione è che abbiamo riscontrato una serie di carenze che riteniamo debbano essere affrontate, ad esempio da parte della FINMA di accordare a Credit Suisse ampie agevolazioni sui fondi propri sotto forma di un filtro prudenziale o la mancanza di assertività nell’applicare le decisioni e obbligare Credit Suisse a seguirle. Per questo abbiamo presentato degli interventi per dare alla FINMA ulteriori strumenti. Deve però riuscire a imporsi sulle grandi banche sistemiche. Abbiamo anche notato tutta una serie di elementi nella cooperazione tra le autorità che devono essere migliorati, anche per garantire che le autorità siano meglio preparate. Vale per il Consiglio federale, il Dipartimento federale delle finanze, la FINMA, l’Autorità federale di sorveglianza dei revisori, la Banca nazionale svizzera e la loro collaborazione reciproca».
Il Consiglio federale ha fatto errori?
«La CPI non ha constatato alcuna mancanza imputabile alle autorità, ma ravvede la necessità di miglioramenti a livello legislativo ed esecutivo. Una questione è per esempio il clima di fiducia all’interno del Consiglio federale, in particolare sull’importanza che le informazioni circolino in modo ottimale in modo che l’Esecutivo possa prepararsi (Ueli Maurer, per timore di fughe di notizie, non aveva informato i colleghi di Governo sulle difficoltà di Credit Suisse nel 2022, ndr). Non deve avere solo quattro giorni per mettere in atto una soluzione. Per quanto fatto in quei pochi giorni, la CPI considera notevole il lavoro, ma forse questo salvataggio avrebbe potuto essere preparato con anticipo».
A suo avviso, bisogna mettere dei paletti, con il rischio di indebolire la piazza finanziaria, oppure regolamentare di meno, ma con la possibilità di essere nuovamente confrontati a una nuova crisi?
«Né troppo, né troppo poco. Bisogna trovare un equilibrio. Abbiamo bisogno di una migliore regolamentazione, di una migliore esecuzione, tenendo conto del rischio sistemico e di altri aspetti. In ogni caso, dobbiamo rivedere la questione dei fondi propri. È compito del Consiglio federale formulare proposte su quale percentuale e in che modo vuole fissare i paletti. Devo però fare una precisazione: nel rapporto, la CPI si riferisce unicamente alle banche di importanza sistemica. Molti, tra cui i rappresentanti delle banche cantonali e delle banche regionali, temono di essere toccati. Ma le misure che proponiamo riguardano solo le grandi banche di importanza sistemica, perché mettono a rischio il Paese e i suoi contribuenti».
È necessario separare le attività di investment banking per ridurre il rischio?
«Credo che si tratti di una questione strategica di competenza della banca. UBS, vorrei far notare, ha pienamente integrato le conseguenze della crisi del 2008. E, prima della vicenda di Credit Suisse e della fusione d’urgenza, non è stata fonte di preoccupazione. Tengo a sottolineare che l’istituto bancario ha collaborato pienamente con la CPI, ha fornito tutti i documenti richiesti e risposto a tutte le nostre domande in modo aperto e trasparente».
Lei, personalmente, sostiene tutte le raccomandazioni formulate dalla CPI?
«Questa è una delle cose che ho trovato più soddisfacenti del lavoro: abbiamo discusso in modo approfondito su ogni atto parlamentare. Li abbiamo votati e non sempre li abbiamo accolti o respinti all’unanimità. Eppure, alla fine tutti hanno rinunciato all’idea di presentare delle proposte della minoranza, pur se fin dall’inizio ho detto che ritenevo importante farlo. Per la CPI, il risultato raggiunto è equilibrato e le soluzioni che abbiamo trovato sono una buona base per continuare il lavoro. Il rapporto è infatti stato approvato all’unanimità».


Lo scorso lunedì, il PS ha presentato un piano d’azione per «proteggere meglio la Svizzera dalla prossima crisi bancaria». Alcune raccomandazioni della CPI non vanno abbastanza lontano?
«Il rapporto della CPI ora appartiene ai cittadini e al Parlamento. Il documento deve servire come base di discussione per un dibattito politico approfondito. Da questo punto di vista, vedo la proposta del Partito socialista come un contributo al dibattito. In qualità di presidente della CPI, però, non spetta a me commentare in modo più dettagliato le proposte di un gruppo parlamentare».
Eppure, a illustrare questo piano d’azione c’era Roger Nordmann, che faceva parte della CPI. Non è una contraddizione?
«Per la CPI, le proposte del PS non sono nuove. Come detto, alcune proposte sono state adottate a maggioranza, altre all’unanimità, altre ancora sono state respinte. Abbiamo voluto trasparenza, permettendo che ci fossero delle minoranze, ma non ce ne sono state. È un buon esempio di come un Parlamento possa lavorare alla ricerca di soluzioni».
Il PS, la prossima settimana, vuole anche discutere la questione dei legami finanziari tra le grandi banche e i partiti borghesi: stando ai dati del Controllo federale delle finanze (CDF), nel 2023 UBS ha versato 241 mila franchi all’UDC, 195 mila franchi al PLR, 173 mila franchi al Centro e 66 mila franchi ai Verdi liberali. Fin quando i partiti saranno finanziati da UBS, è possibile una regolamentazione indipendente e imparziale?
«Prima di tutto, vorrei dire che si tratta di una questione che va ben oltre la questione della piazza finanziaria. Nessuno dei partiti è totalmente finanziato da UBS e ciò riguardava anche lo stesso PS. Personalmente, trovo che il finanziamento dei partiti politici è sempre una questione importante. Si tratta di trasparenza e con le nuove regole (gli attori politici sono tenuti ad annunciare aiuti e sostegni al CDF, ndr) si conoscono anche i montanti. Dubito molto e sono persino certa che non siano questi contributi a comprare i voti».